Sfruttamento del lavoro in agricoltura

 Nel numero de Il Sole 24 Ore in edicola lo scorso 11 maggio, prendendo spunto dall’ennesimo caso di sfruttamento di mano d’opera nel settore agricolo (scoperto, qualche giorno prima, in provincia di Treviso), sono stati forniti i dati del 2019 relativi a questo, deprecabile, fenomeno. 

I NUMERI

Dalle inchieste svolte dagli organismi di controllo sono emersi dati a dir poco agghiaccianti: i lavoratori, spesso stranieri privi di permesso di soggiorno (quindi ricattabili), ricevono una retribuzione media di 4 euro l’ora e di 50 euro al giorno a fronte di un impegno di 8 ore al dì su sette giorni la settimana. 

Vista e considerata la “lauta” remunerazione, gli sfruttatori sottraggono, dalla paga mensile, un importo (da 100 a 200 euro al mese) per il vitto ed un ulteriore importo per l’alloggio (il corrispettivo, a carico del bracciante, in questo caso, muta a seconda che il malcapitato dorma per terra – 100 euro – o su un letto – 200 euro). 

Le decurtazioni imposte ai lavoratori non hanno, tra l’altro, alcuna giustificazione. Gli edifici, infatti, sono stati definiti dalle forze dell’ordine “fatiscenti”, i servizi igienici assolutamente inadeguati per il numero delle persone alloggiate, privi di acqua calda, gas ed energia elettrica. Il vitto è sufficiente solo per i pochi fortunati che arrivano per primi. Per gli altri rimangono the e crackers. 

Sempre nell’articolo citato si evidenzia che, sul totale dei controlli effettuati nel 2019, è emerso che circa il 16%, dei lavoratori impiegati nelle aziende sottoposte a controllo, è stato occupato totalmente in nero, con emissione di sanzioni amministrative per circa 50 milioni di euro e azioni, per il recupero dei contributi evasi, per oltre 8 milioni. 

ALCUNE CONSIDERAZIONI: 

1. Per fortuna non tutta l’agricoltura è così. Vi sono tantissimi imprenditori corretti, rispettosi delle regole, mossi da una grande etica del lavoro, concentrati in un processo di continuo miglioramento qualitativo del prodotto e dei relativi processi produttivi. Il problema, però, indubbiamente esiste. Non possiamo far finta di niente. E’ nostro preciso dovere, infatti, fare tutto il possibile per cercare di migliorare la società nella quale viviamo; 
2. I dati forniti dagli inquirenti rendono palese che la schiavitù economica non è una realtà limitata al continente africano, a qualche lontana zona dell’Asia o dell’America Latina. E’ qui, in mezzo a noi. E, per quanto attiene il nostro Paese, essa non è limitata alle zone più povere e meno progredite. I numeri di cui sopra, infatti, valgono non solo per il Sud. Gli importi e le condizioni di lavoro descritte in premessa, ad esempio, si riferiscono, come detto, proprio al caso emerso in provincia di Treviso, in una azienda vitivinicola; 
3. Lo sfruttamento della mano d’opera, quindi, non è legato solamente alle così dette produzioni povere (schiacciate da prezzi imposti dalla grande distribuzione – e anche questa è una situazione grave, che merita grande attenzione) ma anche a settori dell’agricoltura che, da anni, sono caratterizzati da fatturati sempre più lusinghieri, in un trend di continuo e (speriamo) inarrestabile successo internazionale (1); 
4. I dati di cui sopra (in particolare la diffusa mancata regolarizzazione, l’ammontare della retribuzione riconosciuta e le condizioni di lavoro) probabilmente spiegano i motivi per cui gli italiani sono così poco disponibili a lavorare in agricoltura, preferendo di gran lunga altri tipi di occupazione. Tali dati, quindi, ritengo possano contribuire a sfatare il mito degli italiani imborghesiti, che rifiuterebbero, per la troppa fatica, il lavoro nei campi; 
5. E’ necessario prestare attenzione assoluta agli effetti, pericolosissimi, che conseguono da simili fenomeni: la concorrenza sleale tra imprese, la disperazione e la miseria per i lavoratori sfruttati e i loro famigliari, il rischio concreto di risposte estreme o di rafforzamento degli integralismi, la compromissione delle regole del lavoro che ci siamo dati come comunità, i rischi di spostare potenziale forza lavoro nelle braccia della criminalità organizzata, ecc. 

LA PROPOSTA

Nel settore agricolo-alimentare esistono i così detti marchi collettivi. Essi svolgono una funzione molto importante: i marchi collettivi, infatti, possono indicare la provenienza geografica o la qualità di un prodotto. Per i consumatori è molto importante avere la certezza, ad esempio, che quella specifica mela sia stata prodotta in Val di Non, che quel radicchio sia stato prodotto a Treviso, ecc. Ciò garantisce al consumatore, infatti, la sicurezza del rispetto, da parte del produttore, di determinati standard di qualità. Nel nostro ordinamento i marchi collettivi indicanti la tipologia del prodotto o la sua geografica provenienza non possono essere oggetto di registrazione individuale, ma solo di registrazione collettiva. Essi cioè vengono gestiti, di regola, da enti pubblici o strutture associative private, che non svolgono alcuna attività di impresa, ma hanno la funzione di concedere ai privati produttori, di quella determinata zona, l’uso del marchio collettivo dietro l’impegno, da parte di ciascun produttore, di rispettare specifici disciplinari di produzione, a garanzia della qualità/provenienza del prodotto. 

Ciò premesso, ritengo che dovrebbe divenire obbligatorio, per tutti i disciplinari di produzione, il dovere, in capo ai vari produttori che chiedono di beneficiare del marchio collettivo, non solo di garantire determinate condizioni di qualità della produzione, ma anche di rispettare il primo fattore della produzione, che è costituito da tutti coloro che collaborano allo sviluppo e cura di quel prodotto. Prevedendo, in particolare, l’automatica esclusione in capo ai produttori che si macchiano di gravi lesioni dei diritti dei propri collaboratori come il caporalato, la mancata regolarizzazione, l’omissione contributiva, ecc. 

Ciò non solo per tutelare il buon nome del marchio collettivo rispetto a comportamenti certamente deprecabili, ma anche per tutelare la corretta concorrenza tra produttori (drogata dal fatto che taluni risparmino costi sulla pelle dei propri dipendenti), e di tutti coloro che vivono nell’area geografica/marchio collettivo. L’abitante della Val di Non, ad esempio, potrebbe legittimamente sentirsi profondamente offeso dal fatto che la propria comunità, ed i prodotti ivi provenienti, siano ricordati, nell’immaginario collettivo, per le condotte di imprenditori senza scrupoli, che, pur di aumentare il loro profitto, riducono in semi-schiavitù il proprio personale. Il marchio collettivo, infatti, esorbita l’ente o l’associazione che lo gestisce, appartenendo, in definitiva, a tutti coloro che, in quella determinata zona, vivono. Anche se, alla fine di tutto, il vero cambiamento lo avremo solo quando ciascuno aumenterà, nel suo piccolo, la propria etica individuale. 

Avv. Alessio Veggiari