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Il documento che identifica i nostri valori-guida e definisce il profilo etico-sociale che orienta l’operato di ogni partecipante al funzionamento dello stesso.
Con il presente scritto si voleva dare conto di una recentissima pronuncia di Cassazione in tema di mobbing. Prima di entrare nel merito delle motivazioni della Suprema Corte, vale la pena premettere il significato della parola mobbing.
Il nostro ordinamento giuridico, infatti, non ne fornisce alcuna definizione, motivo per cui la costante giurisprudenza ha fatto riferimento alla nozione che, del fenomeno in parola, hanno dato le scienze sociali, prendendo spunto dalla definizione fornita dall’etologia 1.
Si prendono, in tal senso, le parole di Herald Ege, psicologo, che ha dedicato gran parte della propria carriera allo studio del fenomeno di cui si discute 2. Egli, in particolare, definisce il mobbing come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.”
L’ordinanza che oggi si va a commentare ripropone la definizione acquisita da anni dalla nostra giurisprudenza (anche a seguito di interventi del Giudice delle Leggi) che fa ampio ricorso alle nozioni sopra ricordate. In essa, infatti, si ricorda che il mobbing è “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (si v. Corte cost., sentenza n. 359 del 2003; Cass., sentenze n. 18927 del 2012, n. 17698 del 2014)”.
L’obiettivo del mobbing è, di conseguenza, molto chiaro: eliminare la presenza della vittima da un determinato gruppo di lavoro. Personalmente, nel colloquio con i miei clienti, uso spesso la metafora dello zaino: ti mettono in spalla, senza che te ne accorgi, uno zaino dentro il quale, giorno dopo giorno, ripongono un sasso dopo l’altro. A un certo punto le tue gambe non ce la fanno più: ecco la malattia, l’autoisolamento, la depressione, le dimissioni….
Fatta questa doverosa premessa definitoria, veniamo alle motivazioni dell’ordinanza oggi in commento.
La Corte di Cassazione, dopo avere richiamato la definizione sopra menzionata, del tutto incomprensibilmente, a parere di chi scrive, richiamando un proprio precedente (sempre del 2020), inserisce a carico di chi lamenta una condotta mobbizzante, un pesantissimo onere della prova. Essa, infatti, arriva a sostenere che “ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione”.
Non è, secondo questa pronuncia, sufficiente, quindi, che il lavoratore dimostri di avere subito una dequalificazione o, finanche, plurime condotte datoriali illegittime, ma anche che dimostri, con ulteriori e concreti elementi, il “disegno persecutorio unificante” posto in essere in suo danno.
Si potrebbe, in tal senso, obiettare che se il lavoratore ha richiesto, come pare emergere dalla lettura dell’ordinanza, il risarcimento del danno per le vessazioni subìte, una volta provata la sussistenza della condotta illecita posta in essere dai colleghi o dal datore di lavoro, del danno conseguente e del rapporto di causalità, il richiamo svolto in ricorso alla nozione di mobbing (che, come sopra esposto, comprende in sé una pluralità di condotte diverse, neppure tipizzabili a priori), non potrà mai rappresentare un limite al suo diritto al risarcimento integrale dei danni subìti.
Le intenzioni datoriali sono, in simile situazione, sempre a modesto parere di chi scrive, del tutto irrilevanti. Anche perché la prova delle intenzioni del danneggiante (consistenti nel disegno persecutorio unificante) che la commentata sentenza sembra chiedere come presupposto al risarcimento della vittima, rischia di svuotare la categoria di cui si discute, trattandosi di una prova legata alla sfera psicologica dell’agente. Senza considerare che la vittima assai difficilmente potrà contare sulla solidarietà (e, quindi, sulla testimonianza) dei colleghi di lavoro. Alla solidarietà tra colleghi, infatti, già rarissima in precedenza, si deve ritenere abbia dato una spallata definitiva il decreto 23/15 e la conseguente abrogazione dell’art. 18 dello Statuto e della reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. D’altra parte sin dai latini era nota la locuzione “Unum castigabis, centum emendabis”: chi, vedendo cosa sta succedendo ad un collega, penserebbe mai di aiutarlo, ben sapendo che, in tal caso, rischierebbe esso stesso di divenire la vittima successiva? Difficile sperare, quindi, nell’aiuto di qualcuno.
Quel che è certo è che il binomio consistente nel dar prova delle intenzioni psicologiche dell’agente, specificando altresì che ciò deve essere fatto sulla base di “concreti elementi”, rischia di rappresentare il De profundis della invocabilità del fenomeno in parola nelle aule di giustizia. Ovviamente permane il dubbio che simile decisione nasca da una situazione di fatto particolare, della quale non ci si può rendere pienamente conto dai limitati riferimenti presenti nel provvedimento in commento. Rimaniamo in attesa, allora, di verificare se simile presa di posizione andrà consolidandosi o se, al contrario, sarà relegata a del tutto peculiari (e marginali) situazioni di fatto.
Avv. Alessio Veggiari
L’etologia definisce il mobbing come l’insieme dei comportamenti aggressivi adottati da certe specie di uccelli per difendersi da un predatore.
Per approfondire il tema si rinvia al seguente link http://www.mobbing-prima.it/chi_siamo-team.html dal quale si accede alla associazione Prima, fondata dallo stesso dott. Ege.
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