L’onere della prova del licenziamento orale

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione sceglie di abbracciare la scuola di pensiero formatasi negli ultimi anni che, in tema di “licenziamento orale”, in totale contraddizione rispetto all’orientamento giurisprudenziale tradizionale sostenuto dalla stessa Corte negli anni passati, finisce per far gravare sul lavoratore l’onere di dimostrare, non solo, la cessazione del rapporto, ma anche che questa si sia verificata per volontà del datore di lavoro e che essa sia illegittima, ritenendo che “la mera cessazione definitiva nell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale”. 

Per quanto il caso sottoposto all’attenzione della Corte, con particolare riferimento al capo di sentenza concernente l’impugnativa del licenziamento orale, riguardi una fattispecie del tutto peculiare, nella quale il lavoratore aveva dedotto di essere stato licenziato oralmente in una data antecedente rispetto a quella di un successivo provvedimento scritto di licenziamento intimato dal datore di lavoro (non impugnato dal lavoratore), il principio affermato dalla Corte richiede in ogni caso una riflessione in termini generali, che tenga in considerazione gli aspetti non solo giuridici ma anche sostanziali in gioco.

Va anzitutto rammentato che la scuola di pensiero tradizionale (formatasi già a partire dalla sentenza della Cassazione 2853/1995 e rimasta costante fino agli ultimi anni), ha sempre sostenuto l’indirizzo (basato sulla necessità di un’equa ripartizione dell’onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro) secondo cui sul lavoratore grava solo la prova della “estromissione” dal rapporto di lavoro, mentre la prova delle dimissioni del lavoratore, in quanto eccezione in senso stretto ai sensi dell’art. 2697, 2° comma c.c., spetta al datore di lavoro. In particolare, si è precisato, in tema di ripartizione dell’onere probatorio, che la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto- “riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè, più correttamente sotto il profilo terminologico-giuridico, la mancata accettazione, da parte del datore di lavoro, della prestazione (=energia psico-fisica) lavorativa messagli a disposizione dal lavoratore”; mentre il datore di lavoro, costituendosi in giudizio, è tenuto a provare la sussistenza di un fatto idoneo alla risoluzione del rapporto (quali il licenziamento o le dimissioni o il mutuo consenso, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato; ovvero la scadenza del termine o il recesso per giusta causa, nel rapporto a tempo determinato) (cfr., ex multis, Cass. 08.06.2000 n. 7839; Cass. 4760/2002; Cass. 22852/2004; Cass. 10651/2005; e, più di recente, anche: Cass. 8604/2017; Cass. 25847/2018; Cass. 14202/2018; Trib. Prato 07.01.2019 n. 145; Trib. Bari n. 161 del 17.01.2019).

Il ragionamento proposto, ora, dalla Suprema Corte in commento per giustificare il discostamento dal proprio precedente orientamento, si basa sul seguente ragionamento: “Tale cessazione non equivale a “estromissione”, parola sovente utilizzata nei precedenti citati ma anche che non ha immediato riscontro nel diritto positivo per cui alla stessa va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di “licenziamento”, e quindi nel senso di allontanamento dell’attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto”. Di tal che, essendo, secondo tale ragionamento, il licenziamento il fatto costitutivo della pretesa, lo stesso, ai sensi del 1° comma dell’art. 2697 c.c., dovrebbe essere integralmente provato dal lavoratore ricorrente.

Questa nuova tendenza della Suprema Corte, laddove si pretendesse di applicarla pedissequamente ad ogni controversia giudiziale nella quale si ponga la questione del licenziamento orale, potrebbe portare a situazioni davvero aberranti sotto il profilo probatorio, e finanche a situazioni di abuso da parte del datore di lavoro.

Va notato, anzitutto, che il nuovo ragionamento della Suprema Corte sembra incentrarsi più su una avvertita necessità di revisione critica dell’uso del termine “estromissione” da parte delle precedenti sentenze, che su una più complessa e approfondita valutazione in termini sostanziali e processuali della questione, rischiando in tal modo di ancorarsi a rigidi formalismi che però lasciano aperta una serie di problematiche (delle quali, peraltro, pare rendersi conto la stessa Suprema Corte, come vedremo).

Ciò detto, va comunque considerato che, trattandosi di “licenziamento orale” (in quanto tale “tamquam non esset”), l’esercizio del proprio diritto a vedersi accertata l’inesistenza di una valida estinzione del rapporto rischia, in tal modo, di essere eccessivamente difficoltoso per il lavoratore, in quanto il suo onere probatorio non potrà basarsi su documenti o formali atti giuridici, ma esclusivamente su veri e propri comportamenti concludenti tenuti dai vari soggetti coinvolti, che, per loro stessa natura, risultando di difficile rappresentazione e comprova in sede giudiziale (si pensi, ad esempio, al caso di un licenziamento orale di un lavoratore mai regolarizzato); mentre il datore di lavoro convenuto potrebbe, in linea teorica, semplicemente limitarsi a negare il fatto costitutivo del diritto esercitato da controparte, facendo in tal modo gravare integralmente l’onere probatorio sul lavoratore medesimo.

Sotto altro profilo, il principio espresso dalla Corte pare inoltre trascurare il fatto che, a seguito dell’introduzione della Legge Fornero, prima, e con il D.lgs. 151/2015, poi, è stato introdotto l’obbligo di convalida tramite specifica procedura, sia delle dimissioni che della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. 

Pertanto, considerato che, oggi, le dimissioni “di fatto” e la risoluzione consensuale “di fatto” sono escluse dalle procedure telematiche previste a pena di inefficacia degli atti relativi, ci si chiede come possa ancora sopravvivere e ritenersi valida la fattispecie di una risoluzione del rapporto “per facta concludentia”, senza fornire la prova della sussistenza di un atto idoneo alla risoluzione del rapporto di lavoro, sia essa riconducibile alla volontà unilaterale di una della parti ovvero alla volontà congiunta di esse. Prova, che, all’evidenza, dovrebbe comunque emergere da un atto scritto; di tal che, di fronte alla richiesta di accertamento da parte del lavoratore della persistenza del rapporto di lavoro per inesistenza di un valido atto di recesso, la stessa non potrebbe che essere offerta dal datore di lavoro. Tanto più nell’ambito del paradigma contrattuale di cui all’art.2094 c.c., in relazione al quale si possono individuare diverse ipotesi di sospensione del rapporto, previste ex lege o derivanti dalla volontà delle parti.

Del resto, come già accennato, la stessa Suprema Corte (Cass. 18402/2019) appare consapevole del fatto che non si debba pretendere una applicazione troppo rigida del principio da ultimo affermato, ritenendo opportuno che, in relazione ai casi specifici, Il Giudice del merito eserciti ampiamente i propri poteri istruttori ex art 421 cpc, facendo uso delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. e valutando anche il comportamento processuale delle parti (ad esempio sotto il profilo del mancato assolvimento dell’onere di contestazione specifica da parte del convenuto).

In definitiva, anche alla luce del nuovo indirizzo, non si può prescindere da una valutazione caso per caso da parte del giudice delegato, che tenga conto dell’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma del medesimo articolo, che pone a carico del datore di lavoro convenuto la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. 

Federica Foresti