Le dimissioni della lavoratrice madre

È stato da poco pubblicato il report annuale dell’Istituto Nazionale del Lavoro sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri relative all’anno 2019. 

Com’è noto, infatti, il genitore che rassegni le proprie dimissioni o risolva consensualmente il rapporto nei primi tre anni di vita del bambino, deve convalidare – pena l’inefficacia del recesso – la propria intenzione presso la Direzione Territoriale del Lavoro, che verifica l’effettiva volontà del dipendente e che la stessa non mascheri, in realtà, un obbligo imposto dal datore di lavoro. 

I dati dell’anno scorso sono in linea con il trend degli ultimi anni, che vede in progressiva crescita il numero di mamme che abbandonano il mercato dal lavoro, e cioè:

• Il 73% del totale delle dimissioni rassegnate nel 2019 ha riguardato le lavoratrici madri e solo il 27% i lavoratori padri,
• Quasi l’80% delle dimissioni è stato presentato da lavoratrici nella fascia di età 29-44 anni,
• Per la maggior parte (60%) le dimissioni sono state presentate da lavoratrici con un solo figlio o in attesa del primo,
• Solo il 20% delle domande di trasformazione del rapporto a tempo parziale o di flessibilità nella gestione dell’orario di lavoro sono state accolte.

La motivazione più ricorrente della presentazione delle dimissioni, dichiarata in sede di colloquio al personale addetto alla convalida, è la difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole, dovuta all’assenza o alla lontananza o all’eccessiva onerosità o alla limitata disponibilità delle strutture di sostegno quali: i nonni e i parenti in generale, gli asili nido e i servizi di baby-sitting.

In buona sostanza, è quasi sempre la mamma che rinuncia al lavoro (i), nel momento della vita in cui dovrebbe essere più attiva (ii), già all’arrivo del primo figlio (iii), perché non l’azienda non le concede il part-time o altre forme di lavoro flessibile o da casa (iv). 

Con l’avvento del Covid-19 e delle misure adottate per contenere il contagio, la situazione è ulteriormente peggiorata, perché è cresciuto in modo considerevole il numero delle mamme che hanno rassegnato le dimissioni. Infatti, si sono aggiunti ai motivi sopra menzionati la chiusura degli asili nido e l’impossibilità materiale di ricorrere all’aiuto dei nonni o di baby-sitter. 

La scelta obbligata, per molte lavoratrici, sembra essere stata, quindi, quella di rinunciare alla propria carriera per poter accudire la prole, perché non avevano alternative.

Se è pur vero che nel nostro ordinamento ci sono alcune misure di tutela della lavoratrice madre dimissionaria, tra cui:

• In primis, quando la lavoratrice presenti le dimissioni nel periodo di tempo che va dall’inizio della gravidanza al compimento di un anno di età del bambino, la stessa ha diritto, in forza dell’art. 55 co. 1 d. lgs. 151/2001 (Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) alle indennità previste dalla legge e dal contratto per il caso di licenziamento: prima fra tutti, l’indennità di NASPI, ma anche l’indennità sostitutiva del preavviso e le altre indennità eventualmente previste dal contratto applicabile al rapporto di lavoro. In tal modo, la madre può avere un sostegno economico nel momento in cui decida di smettere di lavorare per occuparsi del bimbo; 

• L’esonero dal preavviso nel caso di dimissioni presentate nel periodo in cui è vietato il licenziamento (ovvero dall’inizio dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino), ai sensi dello stesso art. 55 co. 1. La madre lavoratrice può, pertanto, recedere liberamente dal rapporto e decidere se cambiare posto o tipologia di lavoro, se trasferirsi in un luogo più vicino ai nonni o in altro luogo in cui sia più comodo l’accudimento del figlio, senza dare i giorni di preavviso contrattualmente previsti, né sostenerne l’onere economico (c.d. indennità di mancato preavviso); 

• L’obbligo di convalida avanti alla D.T.L. territorialmente competente delle dimissioni della mamma rassegnate entro i primi tre anni di vita del bambino, pena l’inefficacia delle stesse. Viene demandato all’Ispettorato del Lavoro il compito di verificare se la volontà di recedere dal rapporto sia effettivamente imputabile alla dipendente o se essa dissimuli un “invito al licenziamento” da parte del datore di lavoro;

ciò non toglie, però, che la fuoriuscita delle mamme dal mercato del lavoro sia un grave fattore di impoverimento economico e sociale, oltre che una causa di disuguaglianza e di dipendenza economica della donna, che si deve far carico della maggior parte dei compiti domestici e di cura dei figli, pur senza percepire un proprio reddito. 
È necessario un urgente intervento legislativo che riformi integralmente il settore, regolando non solo il rapporto maternità-lavoro, ma, in generale, il rapporto genitorialità-lavoro, accrescendo la disponibilità di asili nido, rendendoli più accessibili, e valorizzando forme di lavoro flessibili quanto ad orari e a luogo di svolgimento della prestazione.

Peraltro, uno dei risvolti positivi della forzata permanenza domiciliare legata all’emergenza Coronavirus è sicuramente quello di aver scoperto che lo smart-working è efficace quanto il lavoro in presenza e che mamme e papà possono interscambiarsi nell’accudimento dei figli e del lavoro domestico. Del resto, la famiglia stessa sta diventando giorno dopo giorno sempre più FLESSIBILE e gli strumenti previsti a tutela della stessa devono necessariamente stare al passo con la sua evoluzione ed adeguarvisi.
In un articolo che pubblicheremo nei prossimi giorni spiegheremo quali sono le misure previste dalla legge a tutela del padre lavoratore e come egli se ne può avvalere per venire incontro alle esigenze della compagna e così salvare il suo posto di lavoro.

Avv. Silvia Rizzo