L’abuso dei contratti di somministrazione lavoro a tempo determinato

Il contratto di somministrazione lavoro a tempo determinato è, come noto, una tipologia contrattuale molto utilizzata dalle aziende che non intendono assumere direttamente i lavoratori. 
Trattasi di un contratto c.d. “trilatero”, in base al quale l’agenzia di somministrazione sottoscrive il contratto di lavoro con i lavoratori, al fine di inviarli a prestare la propria opera in missione presso imprese utilizzatrici, che ne esercitano la direzione e il controllo. Introdotto per la prima volta dal D.lgs n. 276/2003, in attuazione della legge delega 14 febbraio 2003 n. 30 (c.d. Legge Biagi), è sempre stato al centro di un ampio dibattito e di una serie di interventi normativi e giurisprudenziali, sia in ambito nazionale che a livello eurounitario.
In particolare, prima dell’ultima riforma dell’istituto intervenuta con l’entrata in vigore del d.l. 12 luglio 2018 n. 87 (c.d. Decreto Dignità), convertito con l. 9 agosto 2018 n. 96, che ne ha fortemente limitato il ricorso, sono state sollevate da più parti criticità, soprattutto sotto il profilo di compatibilità della normativa italiana (che, con l’entrata in vigore del d.l. n. 34/2014 aveva del tutto liberalizzato il ricorso all’istituto) alla direttiva 108/2014 CE.

La Corte europea, in particolare, ha avuto modo di porre l’accento sulla necessità di evitare gli abusi consistenti nelle successioni di missioni di lavoro volte ad eludere le disposizioni della direttiva, al fine di incentivare l’accesso dei lavoratori tramite agenzia interinale ad un impiego a tempo indeterminato presso l’impresa utilizzatrice.
Il Giudice eventualmente chiamato a valutare la legittimità dei contratti di somministrazione a tempo determinato, è tenuto, pertanto, a verificare, caso per caso, se si tratti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato al quale sia stata artificiosamente attribuita la forma di una successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale, con la finalità di eludere la direttiva 2008/104, ed in particolare il limite della natura temporanea del lavoro in somministrazione.

Nel caso in cui il Giudice nazionale dovesse individuare gli elementi sintomatici del ricorso abusivo al lavoro in somministrazione, chi ne farebbe le spese sarebbe, soprattutto, l’azienda utilizzatrice presso la quale il lavoratore somministrato ha prestato servizio, potendo quest’ultimo richiedere che venga dichiarata la sussistenza, sin dall’origine, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in capo alla medesima. 
La “ratio” del contratto di somministrazione de quo, infatti, come ha avuto modo di evidenziare la Corte europea, non può essere solo quella della flessibilità dei rapporti corrispondente all’interesse delle imprese, ma anche quello di garantire stabilità e sicurezza ai lavoratori, e quindi forme stabili e non precarie di rapporti di lavoro.

Federica Foresti