La pretesa di corretto inquadramento

Una delle questioni più controverse nell’ambito del rapporto di lavoro attiene all’inquadramento del lavoratore, che spesso si rivolge al suo rappresentante sindacale o ad un professionista per valutare se il livello di inquadramento a lui riconosciuto dall’azienda sia corrispondente o meno alle mansioni effettivamente svolte. Dalla risposta alla predetta domanda dipende, com’è evidente, una lunga serie di conseguenze, sia sotto il profilo economico, nel breve e nel lungo periodo, che sotto il profilo previdenziale, dato che l’inquadramento al livello superiore comporta una retribuzione tabellare più elevata, che incide su (quasi) tutti gli istituti contrattuali, oltre che sul T.F.R. e sulla base di calcolo della pensione.

I passaggi logico-giuridici che devono essere seguiti nella valutazione della correttezza o meno del livello di inquadramento sono essenzialmente questi, secondo quanto conformemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (ex multibus, si veda Cass. 20/6/2011 n. 13495, Pres. Lamorgese Rel. Nobile, in Lav. nella giur. 2011, 953):

1. accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte dal lavoratore; 
2. individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; 
3. raffronto tra il risultato della prima indagine e la declaratoria della normativa contrattuale individuate nella seconda.

In sostanza, dapprima si devono analizzare concretamente le mansioni svolte dal lavoratore, poi si deve leggere la classificazione del personale operata dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro e, da ultimo, si devono confrontare i risultati delle due indagini e comprendere entro quale qualifica e grado della declaratoria possa essere collocata l’attività del dipendente. In genere, nella classificazione del personale operata dal contratto collettivo sono indicati, per ciascun livello di inquadramento, una declaratoria generale e dei profili esemplificativi.

Nella declaratoria generale sono definiti i contenuti professionali della mansione, con specificazione del grado di autonomia e responsabilità richiesto, delle competenze, esperienze e conoscenze necessarie; nei profili esemplificativi, invece, viene riportato un elenco di figure professionali tipicamente rientranti all’interno di quel livello.

Per fare un esempio pratico, l’art. 6 C.C.N.L. per i dipendenti del settore Trasporti, prevede, nella DECLARATORIA di IV livello, che vi appartengano “i lavoratori che svolgono attività per abilitarsi alle quali occorrono periodi di tirocinio o corsi di addestramento per compiere lavori ed operazioni delicate e complesse, la cui corretta esecuzione richiede specifiche e non comuni capacità tecnico-pratiche. I lavoratori che con mansioni d’ordine e con specifica collaborazione svolgono attività amministrative e/o tecnico-operative che richiedono una preparazione acquisibile attraverso l’esperienza di lavoro e/o la formazione professionale. Le mansioni sono svolte sulla base di disposizioni o procedure predeterminate e comportano limitate responsabilità e autonomia” e, successivamente, nei PROFILI ESEMPLIFICATIVI di IV livello, le figure professionali di: – operai con mansioni multiple di magazzino e/o terminal; – preparatori di ordini addetti anche al montaggio e riempimento di elementi prefabbricati, casse, gabbie, scatole, pallet, ecc e addetti alla reggettatura; – conducenti di carrelli elevatori di portata inferiore a 30 q.li, ecc…

Il lavoratore dovrà, quindi, verificare che l’attività da egli effettivamente svolta corrisponda a una di quelle elencate nel mansionario del livello in cui è inquadrato e/o rientri nell’ambito della declaratoria generale ivi indicata. Nel caso specifico può accadere, però, che le attività demandate al singolo lavoratore non rientrino espressamente in alcuna delle declaratorie del contratto collettivo o che egli utilizzi dei mezzi che non sono menzionati nelle descrizioni delle figure professionali e/o delle qualifiche. In tale ipotesi, molto frequente nella realtà, la Corte di Cassazione ha specificato che si deve guardare alle definizioni astratte contenute nelle declaratorie dei diversi livelli interpretando analogicamente, se del caso, le figure professionali rientranti in quel particolare livello con quelle non espressamente previste, e che “nell’interpretare le clausole del contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o categorie, inoltre, va considerata la capacità connotativa e discriminatoria in concreto dei profili professionali contenuti nell’accordo. Ove gli stessi siano generici e suscettibili di assumere svariate concretizzazioni, allora è necessario integrare le indicazioni con le declaratorie di carattere generale della categoria, che assumono valore determinante circa l’effettiva portata degli specifici profili” (Cass. Civ., sez. lav., sent. 18692/2020).

Nel diverso caso in cui, invece, vi sia un apparente contrasto tra la declaratoria generale del livello (o di due diversi livelli) e le figure professionali espressamente elencate, secondo la Suprema Corte prevalgono gli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli rispetto alle declaratorie generali contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, perché “le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì con riferimento alla specifiche figure professionali dei vari settori” (Cass. Civ., sez. lav., sent. 09.04.2019 n. 9861). In caso di dubbio, quindi, prevale sempre lo specifico profilo professionale elencato nel livello.

L’art. 2103 co. 7 c.c., da un lato, garantisce al dipendente il diritto al trattamento economico corrisponde alle mansioni superiori effettivamente svolte, a prescindere dal periodo di tempo in cui esse sono a lui state demandate e, dall’altro, gli assicura il diritto al (definitivo) superiore inquadramento decorso un periodo di sei mesi (o il diverso, più breve, periodo previsto dal C.C.N.L. applicato al rapporto) nello svolgimento di mansioni superiori, purchè non in sostituzione di un altro lavoratore in servizio. Sul punto, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che l’adibizione a mansioni superiori attribuisce al lavoratore il diritto all’assegnazione definitiva a tali mansioni, trascorso il termine di legge, a condizione che lo svolgimento sia stato pieno ed effettivo, continuativo e prevalente sotto il profilo qualitativo e continuativo, rispetto alle mansioni precedenti.

In caso di controversia, l’onere della prova di aver di fatto svolto mansioni superiori rispetto al livello di inquadramento contrattuale spetta al lavoratore, che deve allegare le attività che ritiene di aver svolto e raffrontare queste ultime con i profili professionali dei diversi livelli e con gli elementi caratterizzanti le declaratorie contrattuali del livello possedute e di quello rivendicato.

Avv. Silvia Rizzo