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Il documento che identifica i nostri valori-guida e definisce il profilo etico-sociale che orienta l’operato di ogni partecipante al funzionamento dello stesso.
Nel corso del rapporto di lavoro il dipendente può maturare alcuni diritti di credito nei confronti del proprio datore. Anche se la retribuzione mensile viene puntualmente versata, infatti, vi possono essere delle differenze retributive che non vengono saldate al momento del pagamento dello stipendio e che, mese per mese, il lavoratore va a maturare. Classico è l’esempio del dipendente che svolge mansioni di livello superiore rispetto a quello effettivamente riconosciuto: in questo caso, ogni mese, egli matura un credito che è pari alla differenza tra la retribuzione concretamente versata dal datore e quella che spetterebbe al dipendente se fosse correttamente inquadrato. Come anticipato nel titolo, anche questo credito scade per effetto della prescrizione (cioè del passare del tempo in assenza di qualsiasi rivendicazione da parte del dipendente). Il termine della prescrizione per i crediti di lavoro è di cinque anni dalla loro maturazione, secondo la previsione dell’art. 2948 c.c. Ciò premesso (e questo vuol essere l’oggetto dell’odierno intervento) la domanda da porsi è: da quando decorre detto termine?
Qui è necessario fare una netta distinzione tra due, profondamente diverse, situazioni.
Tra le due situazioni, quindi, vi è una grande differenza. Se, ad esempio, il lavoratore avesse maturato una differenza mensile di 50 euro, è ben diverso poter rivendicare, alla fine del rapporto trentennale, 18.000,00 euro – 30 anni – o 3.000,00 euro – ultimi 5 anni.
Perché, tra le due ipotesi, vi è questa differenza di trattamento?
Ce lo spiega la Corte Costituzionale (sentenza n. 63/66): “in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” con la conseguenza che, in tema di prescrizione, questo fatto “non ne consente il decorso finché permane quel rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinuncia”. Tantissimi lavoratori, cioè, rinunziano a rivendicare i propri diritti, durante il rapporto, per il pericolo che, avanzando simile rivendicazione, il datore di lavoro li possa licenziare illegittimamente. Di questo fatto era consapevole la Corte Costituzionale che, prima ancora della stessa elaborazione dell’art. 18 dello Statuto, ha dichiarato incostituzionali le norme sulla prescrizione ove consentivano il decorso della prescrizione anche durante il rapporto di lavoro, ogni qual volta si trattava di un rapporto, diversamente da quello del pubblico impiego dell’epoca, non “dotato di resistenza”. Tale principio è stato ribadito con la successiva sentenza n. 174/72 col la quale il Giudice delle Leggi ha adattato la propria decisione alla intervenuta entrata in vigore dell’art. 18 dello Statuto, prevedendo, come sopra anticipato, che, per i rapporti di lavoro soggetti alla sua disciplina, la prescrizione decorresse anche durante il rapporto di lavoro, vista la tutela offerta a quel (divenuto) “resistente” rapporto di lavoro.
Dal 1972 non vi sono più stati dubbi interpretativi sulla applicazione dell’istituto della prescrizione (ed è sicuramente un bene, visto che la sua funzione è di dare certezza relativamente alla reclamabilità/estinzione dei diritti).
Tale situazione di unanime interpretazione delle norme che regolano la prescrizione dei crediti di lavoro è stata messa in crisi, dapprima, dalla legge Fornero e, ancor di più, con l‘entrata in vigore del Jobs Act del 2015 e la creazione del così detto “contratto a tutele crescenti”. Queste due leggi (intervenute a dettare una disciplina diversa ai licenziamenti in aziende con più di 15 dipendenti) hanno, difatti, rimesso in discussione l’equilibrio consolidato sopra descritto. Rinviando ad un prossimo articolo un doveroso approfondimento sul tema del licenziamento, vale la pena comprendere quali lavoratori sono soggetti alla legge Fornero e quali al Jobs Act (contratto a tutele crescenti). Ai nostri fini (non dando una riposta, quindi, completa), per semplificare, si può dire che hanno un contratto a tutele crescenti tutti coloro il cui rapporto di lavoro è nato dopo il 7 marzo 2015. Sono, al contrario, soggetti all’art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge Fornero, tutti coloro che hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato iniziato prima di tale data.
Che effetto hanno avuto queste leggi sul tema della prescrizione?
A mio parere (in attesa, quindi, o di un intervento ad hoc del legislatore o di un definitivo assestamento della giurisprudenza) per tutti coloro che sono stati assunti dopo il 7 marzo del 2015, che sono, quindi, soggetti alle così dette “tutele crescenti” sicuramente la prescrizione non decorre durante il rapporto di lavoro. Questi contratti di lavoro prevedono, infatti, in caso di licenziamento illegittimo, unicamente una indennità economica (due mensilità per ogni anno di lavoro sino ad un massimo di 36). La reintegrazione è praticamente azzerata (prevista in caso di nullità del licenziamento, con onere della prova spesso a carico del dipendente). Siamo, quindi, assai lontani da quel “rapporto di lavoro resistente” di cui parlava la Corte Costituzionale. Liberarsi di un dipendente con contratto a tutele crescenti, infatti, è molto semplice ed in via assai residuale v’è il rischio che esso possa, per effetto della sentenza del Giudice, essere reintegrato nell’impresa che lo ha illegittimamente licenziato.
Abbiamo detto che per tutti coloro che sono stati assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 si applica ancora l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/12 (Fornero). In questo caso cosa accade della prescrizione durante il rapporto di lavoro? Decorre o no?
Qui la risposta diviene più articolata in quanto la reintegrazione del lavoratore è stata mantenuta solo in alcune ipotesi ed eliminata in altre. Solo per fare un esempio, la norma prevede che il Giudice può (e non deve) disporre la reintegrazione del lavoratore quando “accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” (cioè del licenziamento disposto per ragioni economico/organizzative). Se, ad esempio, il dipendente viene licenziato per riorganizzazione aziendale, con soppressione del posto di lavoro nel quale egli è occupato, può essere che, anche quando il Giudice abbia accertato che non v’è stata, in concreto, alcuna riorganizzazione, il lavoratore non venga reintegrato. Si tenga in considerazione (tanto per chiarire la situazione nella quale si trova il lavoratore di fronte ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo) che la Corte di Cassazione ritiene pienamente legittimo il recesso datoriale ogni qual volta vi sia stata una riorganizzazione effettiva anche in ipotesi in cui essa sia stata effettuata per un “incremento dei profitti” (Cassazione n. 24882/17 sulla quale prometto un successivo intervento).
Un’altra riflessione va fatta anche nell’ipotesi in cui il lavoratore riesca ad ottenere la reintegrazione. Se, prima della legge Fornero, a questa conseguiva automaticamente l’integrale risarcimento dei danni (compreso il pagamento di tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione) oggi la situazione è radicalmente mutata. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, il legislatore ha posto a carico del dipendente il danno legato alla durata del processo. In moltissime situazioni, infatti, anche laddove il Giudice sancisca la illegittimità del licenziamento, e persino disponga la reintegrazione del lavoratore, la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a dodici mensilità. Supponiamo che l’accertamento della illegittimità del licenziamento venga dichiarata, per la prima volta, in appello. Tale decisione sarà presa a distanza di, quando va bene, tre anni dal licenziamento. Il lavoratore, quindi, avrà perso, anche se reintegrato, comunque due anni di retribuzione! Che nessuno gli darà più……
Se questo è il quadro che esce dalla legge Fornero, e riprendiamo l’ineccepibile insegnamento fornito dalla Corte Costituzionale, la risposta, sulla decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, non può che essere scontata. Normalmente, infatti, i lavoratori dipendenti avranno da pagare un mutuo, un finanziamento, un canone di locazione. Oppure avranno una famiglia rispetto alla quale essi rappresentano l’unica fonte di reddito. In una situazione simile è ovvio che il lavoratore, visti i rischi di cui sopra, rinuncerà a far valere i propri diritti piuttosto che mettere in pericolo uno stipendio assolutamente necessario per vivere. Molti dei Tribunali frequentati dal nostro studio si sono così pronunciati. Si rammentano, a titolo di esempio, Tribunale di Rovigo, sentenza n. 106/2019 pubbl. il 16/04/2019 RG n. 741/2017, Tribunale di Vicenza Sentenza n. 41/2019 RG n. 300/2018 (nelle motivazioni si legge che i magistrati della sezione hanno condiviso questa soluzione), Trib. Padova, sentenza del 4.5.2016. Altri, purtroppo, talvolta senza motivare (dicendo semplicemente che il quadro con la Fornero non è mutato!) hanno assunto una posizione opposta. Ritengo che queste ultime decisioni siano del tutto irrispettose dell’insegnamento offerto dalla Corte Costituzionale e della centralità che, nelle sentenze di questa, viene data alla situazione psicologica del lavoratore dipendente.
Avv. Alessio Veggiari
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