La parità di genere

Un’importante ricorrenza per le donne in magistratura

Nella settimana appena conclusa è apparsa, su alcuni quotidiani, la notizia dei sessanta anni dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 13 maggio del 1960, che sancì l’illegittimità della norma contenuta nell’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’esercizio di diritti e di potestà politiche.
Grazie a questa pronuncia venne abbattuto ogni ostacolo normativo all’accesso delle donne alle professioni che venivano ritenute tradizionalmente maschili all’interno della pubblica amministrazione, quale la magistratura.
L’art. 3 comma 1 della nostra Costituzione già stabiliva il principio di uguaglianza degli uomini e delle donne (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e questo principio era stato ribadito dall’art. 51 (“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”).

Tuttavia la parificazione non si era ancora attuata sulla scorta di argomentazioni che oggi appalesano pienamene la loro incongruenza:

“il problema dell’amministrazione della Giustizia è un problema logico, razionale, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile” (così si esprimeva l’Onorevole Bettiol all’assemblea Costituente nel 1947, tredici anni prima della sentenza della Consulta).

“Ed allora domandiamo: che cosa sarà della “Giustizia” in Italia, la “Patria del Diritto”, se domani – come sarà fatale (ché le donne elettrici sono ahimè! la maggioranza del corpo elettorale) – il “cinquanta per cento” dei posti di giudice sarà occupato – che Dio ce ne scampi e liberi! – da “giudici” in gonnella, che “non hanno il senso del diritto”? (così E. Ranelletti in un testo del 1956)

La sentenza fu quindi importantissima nel processo di abbattimento delle discriminazioni di genere, e consentì l’accesso delle donne alle carriere della pubblica amministrazione ritenute di appannaggio esclusivamente maschile e portò alla legge n. 66 del 9 febbraio 1963 che sancì l’ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni.

Il primo concorso in magistratura aperto alle donne fu bandito pochi mesi dopo la legge e nell’aprile del 1965 le prime otto donne magistrato entrarono in servizio.

Nello scorso anno, si è avuta la prima nomina di una donna a presidente della Corte Costituzionale, mentre, già da tempo, si è avverata quella “fatalità” paventata dal Ranelletti: dal 2015 il numero delle donne in servizio come magistrati togati ha superato quello degli uomini e alla fine del 2018 era pari al 53,2% del totale.

Cristina

Stralcio dalla sentenza 13 maggio 1960 della Corte Costituzionale:

“Senonché la Corte non può non osservare che la norma impugnata (art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176 – n.d.r.) dispone in primo luogo l’esclusione delle donne da tutti i pubblici uffici che comportano l’esercizio di diritti e potestà politiche, riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale: una riserva che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla norma e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte deve pertanto portare il suo esame sulla norma tutt’intera, così, del resto, come l’ordinanza stessa l’ha enucleata dall’art. 7, non già soltanto su una sua parte. Ora, non può essere dubbio che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma”.