La dichiarazione di incostituzionalità dell’Art. 18 Co. 7, secondo periodo, L. 300/1970

Il Tribunale di Ravenna, in funzione di Giudice del Lavoro, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 co. 7, secondo periodo, l. 300/1970 in riferimento agli artt. 3 co. 1, 42 co. 1, 24 e 111 co. 2 della Costituzione, “nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il Giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O., e non applicare la tutela di cui al 4° comma dell’art. 18”.

La Corte Costituzionale, investita della questione, l’ha ritenuta fondata per i motivi che si vengono sinteticamente ad esporre, ed ha dichiarato, con sentenza n. 59/2021 depositata il 01.04.2021, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 co. 7, secondo periodo, l. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012, nella parte in cui prevede che il Giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, <può altresì applicare> – invece che <applica altresì> – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

In motivazione, la Corte effettua una breve disamina dei regimi applicabili ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015 1, precisando che:

• la tutela reintegratoria piena si applica, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, nelle ipotesi di licenziamento:
  • orale,
  • discriminatorio,
  • nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità,
  • retto da motivo illecito determinante.

In tal caso, il Giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum), con un minimo di cinque mensilità;

• la tutela reintegratoria attenuata si applica ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o nell’ambito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, anche in diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti, nelle ipotesi di licenziamento:
  • disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo): quando il Giudice riscontri:
    • l’insussistenza del fatto contestato o
    • la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni del C.C.N.L. o del codice disciplinare;
  • per giustificato motivo oggettivo, quando il Giudice riscontri:
    • l’assenza di giustificazione per “motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore” o
    • la violazione delle regole che, nell’ambito del licenziamento per malattia, disciplinano il periodo di comporto o
    • la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” → in questo caso il Giudice, però, a differenza di tutti gli altri casi sopra richiamati, PUÒ (ovvero ha la facoltà, ma non è tenuto a farlo) applicare la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18 co. 4 St. Lav.

Quando riconosce la tutela reintegratoria attenuata, il Giudice ordine la reintegra del lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con un massimo di dodici mensilità e con detrazione non solo di quel che il lavoratore ha percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum), ma anche di quello che avrebbe potuto percepire adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum).

Il fulcro della questione di costituzionalità è rappresentato proprio dal licenziamento per motivi economici, che il regime sanzionatorio introdotto dalla legge c.d. “Fornero” ha tutelato con la regola della corresponsione di un’indennità economica, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità, e con un’eccezione, vale a dire il ripristino del rapporto di lavoro, accompagnato da un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, nel solo caso di manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e, dunque, la sua natura pretestuosa.

La manifesta insussistenza del fatto, come chiarito anche da Cass. Civ., sez. lav., sent. 11 novembre 2019, n. 29102, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare, ovvero:

• le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento,
• il nesso di causa che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro,
• l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore,

ed è sufficiente che difetti uno dei predetti requisiti affinché possa operare il rimedio della reintegrazione (Cass. Civ., sez. lav., sent. 12 dicembre 2018, n. 32159).

Il dato testuale della norma di cui all’art. 18 co. 7 l. 300/1970 rende evidente che il Giudice, in questi casi, non sia obbligatoriamente tenuto ad applicare il rimedio della reintegra, neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si connoti come manifesta, e ciò è stato chiarito recentemente dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. lav., sent. 3 febbraio 2020, n. 2366), che lo conferma anche in relazione alla diversità di termini utilizzati nel primo (<applica>) e nel secondo periodo (<può applicare>) del medesimo co. 7 dell’art. 18.

La Corte di Cassazione ha tentato di fornire al Giudice alcuni criteri di valutazione discrezionale, per evitare le incertezze applicative che il testo dell’art. 18 co. 7 l. 300/1970 avrebbe ingenerato, dando preliminare importanza ai principi in tema di risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c., che preclude la restitutio in integrum quando essa sia eccessivamente onerosa; per cui, secondo la Cassazione, il Giudice, al momento di adozione del provvedimento, deve valutare se la reintegrazione sia sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa (Cass. civ., sez. lav., sent. 2 maggio 2018, n. 10435) e può pronunciare la reintegra del lavoratore “subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio” (Cass. civ., sez. lav., sent. 31 gennaio 2019, n. 2930).

Secondo la Corte Costituzionale, però, questo orientamento giurisprudenziale è irragionevole perché assoggetta ad una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore. Inoltre, la nozione di eccessiva onerosità può essere utile a distinguere due forme di tutela risarcitoria nel contesto di grandezze economiche comparabili (il risarcimento in forma specifica e quello per equivalente), ma non può applicarsi alla disciplina della reintegrazione, che si è delineata nel tempo quale forma autonoma tecnica di tutela, del tutto peculiare rispetto alle altre.

Nella motivazione della sentenza, la Corte Costituzionale ha spiegato che la previsione normativa censurata contrasta con i PRINCIPI DI EGUAGLIANZA E DI RAGIONEVOLEZZA perché:

1. in primis, delinea una disarmonia interna al sistema creato dalla stessa legge c.d. “Fornero”, laddove, da un lato, per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la REINTEGRAZIONE del lavoratore quando si accerti in giudizio l’INSUSSISTENZA DEL FATTO POSTO A BASE DEL LICENZIAMENTO e dall’altro, per i licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto, quando sia MANIFESTA, PUÒ (ma non è obbligatoria) condurre alla REINTEGRAZIONE. L’insussistenza del fatto, dunque, è stata individuata quale elemento qualificante per il riconoscimento del rimedio più forte (la reintegra);
2. inoltre, nel sistema così delineato, “si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una INCONSISTENZA MANIFESTA DELLA GIUSTIFICAZIONE ADDOTTA e del ricorrere di un VIZIO DI PIÙ ACCENTUATA GRAVITÀ rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto”. Aggiunge, la Corte: “la peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, NON LEGITTIMANO UNA DIVERSIFICAZIONE QUANTO ALL’OBBLIGATORIETÁ O FACOLTATIVITÀ DELLA REINTEGRAZIONE, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta”;
3. ciò lascia al Giudice eccessiva discrezionalità di scelta, senza un criterio direttivo – e quindi altamente controvertibile – tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria, compromettendo l’intento, enunciato dallo stesso art. 1 co. 1 lett. c) l. 92/2012, di “circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del Giudice”.

Per tutti questi motivi, l’art. 18 co. 7, secondo periodo, della l. 300/1970 è stato ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che il Giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, <può altresì applicare> – invece che <applica altresì> – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma, di fatto rendendo obbligatoria la tutela reintegratoria debole quando il fatto, nel licenziamento economico, sia manifestamente insussistente, al pari di quanto era già previsto per il licenziamento disciplinare.

Avv. Silvia Rizzo