Incostituzionalità del Jobs Act – Seconda parte

CONCLUSIONE

Terminiamo l’intervento, ripartendo da dove avevamo finito la prima parte. Avevamo, in particolare, ricordato come la Corte Costituzionale abbia dichiarato costituzionalmente illegittimo il Jobs Act richiamando non solo le norme della Carta Fondamentale (in particolare gli articoli 4 e 35) ma anche alcune importanti disposizioni della Unione Europea.

Ci si riferisce, in particolare, all’art. 24 della Carta Sociale Europea che prevede il diritto del lavoratore europeo, soggetto a licenziamento senza una valida motivazione, “ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Nel richiamare detta norma la Corte Costituzionale ha rammentato anche la giurisprudenza “autorevole” del Comitato europeo dei diritti sociali che ha posto in evidenza la necessità che l’indennizzo sia contemporaneamente congruo e idoneo a svolgere una adeguata funzione dissuasiva.

La Corte si è pronunciata, è bene evidenziarlo, in relazione alla norma già modificata dal decreto dignità, esprimendo i giudizi di cui sopra chiarendo che la norma dichiarata incostituzionale “mostra tutta la sua incongruenza” proprio “nei casi di anzianità non elevata, come nel giudizio a quo”.

Ed in effetti, sono proprio le situazioni di limitata anzianità (ma si dovrebbe aggiungere anche il caso del datore di lavoro molto forte sotto il profilo economico) quelle nelle quali il datore di lavoro, usando le parole del Giudice Costituzionale, non viene, dalla normativa oggetto del presente intervento, “allontanato dall’intento di licenziare” proprio in relazione alla assoluta esiguità del rischio risarcitorio previsto per gli assunti con contratto a tutele crescenti rispetto alla propria forza economica. 

Su questo tema è successivamente ed autorevolmente intervenuto il Comitato europeo dei diritti sociali, con la sentenza dell’11 febbraio 2020.

Il Comitato, pronunciatosi dopo il decreto dignità e la sentenza della Corte Costituzionale sopra richiamata (entrambi espressamente menzionati in motivazione), ha ribadito l’incompatibilità del meccanismo previsto dalle “tutele crescenti” con il “diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione”.

In particolare il Comitato ritiene che permanga tutt’ora una chiara violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea riveduta (CSER) da parte della normativa nazionale, non prevedendo, l’attuale sistema risarcitorio, un congruo e sufficientemente dissuasivo sistema sanzionatorio contro l’illegittimo licenziamento. Per il Comitato, infatti, il risarcimento può essere considerato una adeguata forma di riparazione soltanto quando vi sia:

1. il rimborso delle perdite finanziarie subite tra il licenziamento e la pronuncia del giudice;
2. la reintegra del lavoratore;

2. bis) o una indennità di importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima.

Alla luce di tale pronuncia si ripropone un problema di attuale compatibilità costituzionale del D.Lgs. 23/15, e dei tetti risarcitori ivi previsti (compreso quello di 12 mensilità in caso di “insussistenza del fatto contestato”), in quanto ritenuti, dal Comitato, non rispettosi dell’art. 24 della CSER, norma, a sua volta, come visto, posta dalla Corte Costituzionale a fondamento della propria pronuncia di incostituzionalità, con espresso rinvio, come detto, tra l’altro, alla precedente (e ritenuta “autorevole”) interpretazione operata proprio dal citato Comitato (decisione n. 106/2014, Finnish Society of Social Rights contro Finlandia). 

Ancor più specificatamente il Comitato, al punto 93 della sentenza, ha precisato che la norma italiana prevede “un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l’importo è limitato. Tale concetto viene ribadito al punto 101, nel quale il Comitato evidenzia come le “opzioni risarcitorie” previste dalla norma italiana “sono tali da INCORAGGIARE, o quanto meno a non dissuadere, il ricorso al licenziamento illegittimo”. 

Il tetto massimo, evidenzia in maniera assolutamente corretta, a parere di chi scrive, il Comitato, fa divenire il risarcimento ancor più “inadeguato” mano a mano che la sua concreta liquidazione si allontana rispetto al momento in cui l’illecito è stato subito. Come sottolinea il Comitato, infatti, anche i tempi della giustizia, con la nuova riforma, sono tutti stati “scaricati” sul contraente debole in quanto, appunto, solo su di esso grava il lasso temporale tra il giorno dell’illecito e quello dell’eventuale risarcimento.

Il Comitato, inoltre, mette in evidenza che “la vittima deve poter chiedere un ristoro del danno morale subito attraverso altre vie legali” rilevando che, al contrario, il nostro ordinamento non consente alla vittima di illegittimo licenziamento un risarcimento aggiuntivo rispetto a quello che il legislatore ha l’obiettivo di garantire come onnicomprensivo.

Conclusivamente ed esaustivamente al punto 104 il Comitato chiarisce che né “il tetto massimo del plafonds previsto dalla legge in vigore, né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza un motivo valido di ottenere un risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l’uso del licenziamento illegittimo”.

In conclusione, alla luce di tale pronuncia si ritiene che sussista, ancora oggi, un problema di compatibilità tra il modello del “contratto a tutele crescenti” e l’art. 24 della CSER (e, quindi, con gli artt. 76 e 117 Cost.) per quanto attiene, in particolare, alla inadeguatezza del D.Lgs. 23/15 sia sotto il profilo risarcitorio che, ancor di più, in relazione alla funzione dissuasiva dei limiti risarcitori ivi previsti. 

Si attendono, quindi, ulteriori interventi da parte della stessa Corte Costituzionale così sollecitata dal Comitato Europeo.

Avv. Alessio Veggiari