Incostituzionalità del Jobs Act – Prima parte

PREMESSA

Il così detto Jobs Act è probabilmente uno degli esempi più eclatanti di spregiudicatezza politica di questi ultimi anni. Basti, infatti, ricordare come, l’ispiratore della sua riforma, avesse, prima della nomina a segretario del partito di riferimento (1), una opinione sulla disciplina dei licenziamenti, che, dopo l’avvenuta nomina, mutava esattamente di 180° (2). La domanda che, come cittadino, mi pongo, indipendentemente dal merito della riforma, è: che fiducia possono avere i cittadini in politici che mutano le proprie convinzioni in funzione degli obiettivi che, di volta in volta, si prefiggono? 

DISCIPLINA

Il Jobs Act o D.Lgs. 23/15 ha previsto che, a tutti i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore (7 marzo 2015) o trasformati a tempo indeterminato dopo tale data, non fosse più applicabile, in caso di licenziamento, l’art. 18 dello Statuto (peraltro come già ampiamente depotenziato dalla legge Fornero n. 92/12), ma fossero soggetti al così detto contratto “a tutele crescenti”. I lavoratori ai quali si applica tale disciplina, più specificatamente, non avranno mai diritto alla reintegrazione in caso di illegittimità del licenziamento, tranne nei limitati casi in cui il lavoratore riesca a dare prova della sua discriminatorietà, che il licenziamento sia stato intimato in casi nei quali la legge ne prevede la nullità (ad es. in gravidanza) o in quanto intimato in forma orale (art. 2). In queste situazioni i lavoratori, oltre che alla reintegrazione, avranno diritto anche al riconoscimento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla reintegrazione. Nei casi in cui il lavoratore sia stato licenziamento per ragioni disciplinari per dei fatti che, nel processo, risulteranno totalmente insussistenti (ad esempio il lavoratore accusato di furto, che non aveva rubato alcunché) il lavoratore avrà sì diritto alla reintegrazione ma il risarcimento del danno non potrà mai essere superiore alle 12 mensilità (!).

In tutti gli altri casi nei quali il licenziamento sia stato dichiarato illegittimo dal giudice, al lavoratore non spetterà mai la reintegrazione ma solo una mera indennità risarcitoria. 

Il meccanismo originario, previsto dal Jobs Act, per il calcolo di detta indennità, era il seguente: due mensilità per ciascun anno di anzianità maturato al momento del licenziamento, con un tetto minimo di 4 mensilità ed un tetto massimo di 24 mensilità (art. 3). Fine. Nessun’altra sanzione. Il D.Lgs. 23/15, come sopra sommariamente descritto, è stato oggetto di una duplice modifica.

I MODIFICA

Da parte del legislatore, con il così detto “decreto dignità”, che, pur confermando l’opzione legislativa di non prevedere la tutela reintegratoria, in caso di illegittimità del licenziamento, è intervenuto alzando i tetti sia del risarcimento minimo (portato da 4 a 6 mensilità) che di quello massimo (portato da 24 a 36 mensilità). Il decreto dignità è andato ad interrompere un lungo (e pressoché unidirezionale) disegno complessivo di riforma del diritto del lavoro, che sarà oggetto di un prossimo contributo.

II MODIFICA

Da parte della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018 (3), che ha sancito la illegittimità costituzionale del sistema di liquidazione del danno così come previsto dall’art. 3 del D.Lgs. 23/15.

La Corte Costituzionale, più in particolare, ha ritenuto che l’art. 3 del D.Lgs. 23/15 ledesse:

• in primo luogo, il principio di eguaglianza nella misura in cui, ancorando il risarcimento ad un mero calcolo matematico (due mensilità x il numero di anni di anzianità), avrebbe provocato una “ingiustificata omologazione di situazioni diverse (…) E’ un dato di comune esperienza (…) che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, e dunque solo uno dei tanti (…). In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio”. “La previsione di una misura risarcitoria uniforme (…) si traduce in una indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”. Di conseguenza “non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia (…) All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con il valore dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pur essa imposta dal principio di eguaglianza” (n. 11);
• in secondo luogo, il Giudice delle Leggi (dopo avere chiarito che spetta al legislatore l’individuazione della misura – economica, ripristinatoria, mista – ritenuta più adeguata di fronte ad un licenziamento illegittimo) ha censurato il meccanismo di cui all’articolo 3 del D.Lgs. 23/15 sotto il profilo della ragionevolezza della misura risarcitoria ivi prevista, mettendo in chiaro che, nel caso di opzione per uno strumento meramente risarcitorio (come è nel caso delle tutele crescenti), questo deve essere equilibrato ed adeguato:
• 1. sotto il profilo compensativo (cioè, anche se non di totale copertura delle conseguenze subite, esso deve essere di entità tale da garantire un equo risarcimento al soggetto che, di certo, ha subito un atto ritenuto illegittimo dal giudice, per violazione dell’art. 2119 c.c.);
  2. sotto il profilo dissuasivo (cioè di consistenza tale da scoraggiare il datore di lavoro dal licenziare il dipendente senza una valida giustificazione).

Nello stabilire la illegittimità costituzionale della norma citata, la Corte Costituzionale ha richiamato le norme costituzionali a tutela del lavoro (l’art. 4, con il suo richiamo al “diritto al lavoro”; l’art 35 che stabilisce che l’ordinamento “tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), e alcune proprie sentenze (le n. 45/65 e n. 63/66 nelle quali si ribadisce, (contro una teoria parificante, che rischia di dilagare) il principio che, nel contratto di lavoro, il lavoratore è – e rimane – il contraente debole (affermazione che dovrebbe essere ben tenuta a mente nella quotidiana attività di interpretazione delle norme: “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge e può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti”). Ha, inoltre, richiamato importanti disposizioni UE. Ne darò conto nella II parte dell’intervento.

Avv. Alessio Veggiari