Il trattamento economico della reperibilità

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha rilasciato qualche settimana fa un comunicato (il n. 35/2021) con il quale precisa in quale misura i periodi di prontezza in regime di reperibilità possano essere qualificati come “orario di lavoro” o, al contrario, come “periodi di riposo” alla luce della Direttiva n. 2003/88.

Tale comunicato esplicita i principi già espressi dalla stessa Corte di Giustizia nella sentenza resa dalla Grande Sezione nelle cause riunite n. C-344/19 e C-580/19 e, più precisamente che:

1. la nozione di “orario di lavoro” esclude ontologicamente quella di “periodo di riposo”, e viceversa,
2. dev’essere automaticamente qualificato come “orario di lavoro” il periodo durante il quale il lavoratore abbia l’obbligo di restare sul luogo di lavoro, distinto dal suo domicilio, e di rimanere ivi a disposizione del datore di lavoro. In tal caso (si pensi ai medici in servizio di continuità assistenziale, c.d. “Guardia Medica”) non vi sono particolari problemi circa la retribuzione spettante al lavoratore, che viene corrisposta in relazione all’orario di lavoro concordato,
3. quando, invece, non via sia l’obbligo di rimanere sul luogo di lavoro, la valutazione circa la natura del periodo di prontezza in regime di reperibilità va fatta all’esito di un’attenta analisi dell’insieme delle circostanze del caso di specie, al fine di verificare i vincoli concretamente posti al lavoratore nello specifico rapporto di lavoro, tra i quali: il termine di cui dispone il lavoratore per riprendere l’attività a partire dal momento in cui riceve la chiamata dal datore di lavoro, il fatto che sia munito di un equipaggiamento specifico, qualora debba presentarsi sul posto di lavoro, le facilitazioni che gli vengono concesse (auto di servizio, deroghe al Codice della Strada, ecc…), la frequenza con la quale gli interventi gli vengono richiesti. Non hanno alcuna rilevanza, invece, le difficoltà organizzative che il periodo di prontezza in regime di reperibilità comportano al lavoratore quale conseguenza naturale o della libera scelta di quest’ultimo, in relazione, ad esempio, al fatto che la zona dalla quale il lavoratore non può allontanarsi abbia poco da offrire per il suo tempo libero e di svago,
4. le modalità di remunerazione dei lavoratori per i periodi di guardia o prontezza non sono disciplinate dalla Direttiva 2003/88, pertanto la normativa nazionale e i C.C.N.L. possono, da un lato, legittimare il datore di lavoro a considerare in modo differente i periodi durante i quali vengono effettivamente rese delle prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non venga svolto alcun lavoro effettivo, anche se essi vanno considerati al pari dell’orario di lavoro e, dall’altro, possono prevedere una forma indennitaria per i periodi che non possono essere considerati al pari dell’orario di lavoro, per compensare i disagi causati al lavoratore.

In applicazione dei suddetti principi, la Corte di Giustizia ha affermato che i periodi di guardia o prontezza, compresi quelli in regime di reperibilità, rientrano interamente nella nozione di “orario di lavoro” se i vincoli imposti al lavoratore nel corso di detti periodi pregiudichino in modo oggettivo e assai significativo la sua facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicarsi ai propri interessi. 
Per converso, ove manchino tali vincoli, va considerato “orario di lavoro” solo il periodo di tempo strettamente connesso alla prestazione di lavoro effettivamente resa nel corso dei periodi di reperibilità.

Ciò, in pratica, significa che se un lavoratore, indipendentemente dal fatto che abbia svolto o meno un lavoro concreto durante il periodo di reperibilità, ha subito delle restrizioni oggettive e significative del suo tempo libero e di riposo (ad esempio perché doveva recarsi entro 20 minuti sul posto di lavoro in caso di chiamata o perché doveva essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di tornare entro il termine di un’ora in caso di necessità), quel periodo dev’essere considerato quale orario di lavoro e conseguentemente retribuito; qualora, invece, non abbia subito tali oggettive limitazioni del suo periodo di riposo, da valutarsi nel caso concreto, quel tempo non va considerato al pari dell’orario di lavoro, ma può essere comunque retribuito con un’indennità che compensi il disagio arrecatogli, salva, in ogni caso, la retribuzione per il lavoro eventualmente prestato in risposta alla chiamata ricevuta.

Avv. Silvia Rizzo