Il potere disciplinare del datore di lavoro e il principio di tempestività della contestazione

Il potere disciplinare è, come noto, un diritto potestativo contrattuale del datore di lavoro, insito nella natura stessa di subordinazione del rapporto, e quindi nel potere dell’imprenditore di eterodirezione della forza lavoro. L’esercizio di tale diritto, peraltro, deve essere posto in essere con l’adozione di particolari cautele, nel rispetto dei principi generali di legge e di contratto, potendo altrimenti il datore di lavoro incorrere in sanzioni di irregolarità e finanche di invalidità della sanzione irrogata, sia essa di natura conservativa (richiamo, multa, sospensione dal lavoro e dalla retribuzione) o espulsiva (licenziamento disciplinare).

Il rispetto, da parte del datore di lavoro, dei principi generali di buona fede e correttezza contrattuale, rimane alla base di ogni valutazione di legittimità del procedimento disciplinare e uno dei presupposti che lo legittimano è il rispetto del c.d. “principio di tempestività della contestazione disciplinare”. La giurisprudenza, anche della Suprema Corte di Cassazione, ha già delineato da tempo il contenuto di tale obbligo, il cui rispetto va valutato caso per caso (anche in rapporto alle dimensioni dell’impresa), tenendo conto delle finalità sottese al principio medesimo.

In particolare, è stato più volte rilevato come il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare trovi la sua specifica ratio nella tutela del lavoratore, avendo la funzione, da un lato, di tutelare il diritto di difesa del lavoratore (che potrebbe essere pregiudicato con il passare del tempo); dall’altro, di evitare che il ritardo nell’elevazione di contestazione disciplinare faccia sorgere nel lavoratore l’affidamento nel disinteresse sociale, e quindi la legittima convinzione che il comportamento tenuto sia tollerato dal datore di lavoro. Laddove, pertanto, il lavoratore lamenti la violazione di tale specifica forma di tutela, spetterà al datore di lavoro, convenuto in giudizio, dimostrare che la sanzione disciplinare è stata irrogata nel rispetto dei tempi strettamente necessari per acquisire una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nonché della loro riconducibilità al lavoratore dipendente. 
Sulla scorta di tali principi, ad esempio, è stata considerata tardiva la contestazione disciplinare elevata da una società datrice di lavoro a distanza di quattro mesi dal momento in cui era venuta a conoscenza del fatto contestato, per la considerazione che il tempo trascorso non era stato necessitato da indagini ulteriori circa il medesimo fatto (Cass. Sez. Lav. 16.11.2018 n. 29627). Tali principi generali vanno, poi, coordinati con le specifiche tutele contrattuali tipiche dei codici disciplinari, laddove è solitamente previsto che il datore di lavoro, in ipotesi di prima mancanza del lavoratore, laddove non di gravità tale da giustificare il recesso, debba procedere, dapprima, all’irrogazione di una sanzione di natura conservativa (che ha, come noto, anche una finalità dissuasiva nella reiterazione della stessa) e, in caso di reiterazione, anche alla contestazione scritta della recidiva, al fine dell’applicazione di sanzioni progressivamente più gravi e, in ultima istanza, del licenziamento.

L’esercizio del potere disciplinare, pertanto, richiede l’adozione di particolari cautele da parte del datore di lavoro, tanto più nell’ipotesi di irrogazione della massima sanzione espulsiva (licenziamento disciplinare), la cui mancata attuazione potrebbe, in alcuni casi, portare anche ad una pronuncia di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Invero, come ha già avuto modo di chiarire la giurisprudenza “se il datore di lavoro, pur essendo in possesso di tutti gli elementi per riferire sulle condotte inadempienti del lavoratore, ha ingiustificatamente ritardato la contestazione, la tardività della contestazione integra un vizio del procedimento che determina la tutela indennitaria. Se, invece, l’ingiustificato ritardo abbia impedito il diritto di difesa del lavoratore o abbia fatto sorgere nel lavoratore l’affidamento nel disinteresse datoriale, allora tale vizio assume valenza sostanziale e, visto il pregiudizio arrecato al diritto di difesa, in siffatta ipotesi sarà accordata tutela reintegratoria. E ciò vale anche nel caso in cui per fatti concludenti sia risultata la rinuncia all’esercizio del potere disciplinare” (Corte App. Milano Sez. Lav. 20.12.2017 n. 2238).

Avv. Alessio Veggiari