Il licenziamento per giusta causa

Nei rapporti di lavoro ai quali risulti applicabile l’art. 18 L. 300/1970, così come riformato dalla l. 92/2012 (cioè, in buona sostanza, a quelli sorti prima del 7 marzo 2015), le tutele previste in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo sono:

• REINTEGRATORIA, di cui all’art. 18 co. 4 (ovvero la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, nella misura massima di dodici mensilità), nei casi di:
  • INSUSSISTENZA DEL FATTO CONTESTATO,
  • FATTO SUSSISTENTE MA SOSTANZIALMENTE IRRILEVANTE sotto il profilo disciplinare,
  • FATTO SUSSISTENTE MA NON IMPUTABILE AL LAVORATORE,
  • SANZIONE NON PROPORZIONALE AL FATTO CONTESTATO ED ACCERTATO perché rientrante nelle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare che stabiliscano per esso una SANZIONE CONSERVATIVA.
• INDENNITARIA, di cui all’art. 18 co. 5 (ovvero l’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, da determinarsi in relazione all’anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento e alle condizioni delle parti) nelle “ALTRE IPOTESI” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa.

In pratica, con la riforma c.d. “Fornero” sono state graduate le ipotesi di illegittimità del licenziamento disciplinare, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza quella della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria all’ipotesi del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del C.C.N.L.

Il 13 aprile 2021 la Cassazione, sezione Lavoro, ha emesso due interessanti sentenze in materia di licenziamento disciplinare, in tema, rispettivamente, di fatto sussistente ma non disciplinarmente rilevante (la n. 9647/2021) e di non proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto al fatto contestato (la n. 9657/2021).

La prima pronuncia (n. 9647 del 13.04.2021), riguardante un licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente perché, durante il periodo di assenza per malattia aveva tenuto un comportamento incompatibile con il proprio stato di salute, la Corte ha precisato che la malattia del dipendente non dev’essere intesa come un’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività ma come un impedimento alle normali prestazioni lavorative, per cui il lavoratore assente per malattia che sia stato sorpreso a svolgere altre attività può offrire di provare:

• la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, 
• la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia e, quindi, una sua fraudolenta simulazione,
• la loro idoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche,

dovendo, poi, il Giudice effettuare un accertamento in concreto, nel caso specifico, con giudizio ex ante, per valutare se, come nel caso posto all’attenzione della Cassazione, i comportamenti assunti dal lavoratore nel periodo di malattia siano compatibili con la diagnosi della patologia, al fine di escludere che vi sia stata una progettazione fraudolenta e che la condotta del dipendente sia stata di ostacolo alla guarigione e/o abbia ritardato la soluzione dell’episodio morboso.

Nell’occasione, la Corte ha affermato che il comportamento del lavoratore era certamente da ritenersi esistente, pur se privo del carattere di illiceità e, in quanto tale, da qualificarsi quale “insussistente” ai fini dell’applicazione della tutela ex art. 18 co. 4 St. Lav., senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. 

In altre parole, è stata dichiarata l’EQUIVALENZA dell’INSUSSISTENZA MATERIALE con l’IRRILEVANZA GIURIDICA del fatto accertato, con diritto del lavoratore, in entrambi i casi, alla REINTEGRAZIONE ex art. 18 co. 4.

Con la seconda sentenza in esame (n. 9657 del 13.04.2021), invece, la Suprema Corte ha chiarito che lo scollamento tra fatto contestato e sanzione disciplinare può giustificare l’applicazione della tutela ex art. 18 co. 4 St. Lav. solo quando le previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare prevedano espressamente che quel comportamento vada sanzionato con una sanzione conservativa. In tal caso, infatti, prevale il principio di tipicità delle condotte (equiparabile a quello di matrice penalistica) che comporta, tra l’altro, la prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto.

Nelle altre ipotesi in cui, invece, non vi sia un’espressa previsione di riconducibilità alla sanzione conservativa, e si ravvisi un caso di non proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione, si concretizzeranno le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali il co. 5 dell’art. 18 St. Lav. prevede la tutela indennitaria c.d. “forte”.

La Cassazione sottolinea, in particolare, come non si possano interpretare estensivamente le clausole del contratto collettivo o del codice disciplinare che prevedono un’eccezione rispetto alla regola generale, non essendo ammessa un’apertura all’analogia o ad un’interpretazione che allarghi la portata della norma collettiva oltre i limiti suindicati, che produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto.

In pratica, se è vero che la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nel C.C.N.L. non è vincolante, potendo l’elenco essere esteso a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa e di giustificato motivo, oppure ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne siano alcune non rispondenti al modello legale (e, quindi, nulle per contrarietà a norma imperativa), è pure vero che, sul piano delle tutele, quella reintegratoria sia dovuta quando vi sia l’ABUSO CONSAPEVOLE DEL POTERE DISCIPLINARE, che implica una “sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante dall’insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore” (Cass. Civ., sez. lav., sent. 9 maggio 2019, n. 12365). Mentre, come detto, in tutti gli altri casi di non proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione espulsiva irrogata, troverà applicazione la tutela indennitaria c.d. “forte”.

Avv. Silvia Rizzo