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Il documento che identifica i nostri valori-guida e definisce il profilo etico-sociale che orienta l’operato di ogni partecipante al funzionamento dello stesso.
Gli artt. 46 D.L. 18/2020 e 80 D.L. 34/2020 prevedono che “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Le norme citate, quindi, hanno previsto che, dal 17 marzo e fino al 17 agosto 2020 (arco temporale successivamente prorogato a tutt’oggi):
La ratio (piuttosto evidente) della disciplina è stata quella di garantire la stabilità della occupazione, evitando:
Il divieto di licenziamento, sotto questo profilo, è una diretta applicazione di alcuni principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale ed, in particolare, rappresenta un esempio di diretta applicazione dell’art. 4, comma I, della Costituzione secondo il quale: “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Le finalità che stanno alla base di detto intervento normativo, peraltro, sono in linea con quelle “sociali” che, il III comma dell’art. 41, riserva alla legge di determinare, al fine di correttamente indirizzare l’economia pubblica e privata.
Se questa è la ratio legis, ed il quadro in cui le disposizioni sopra richiamate si vanno ad inserire, è evidente che la tutela ivi prevista deve, a parere di chi scrive, essere riconosciuta a tutti coloro che, all’interno della azienda lavorano, indipendentemente dalla loro qualificazione formale (e ciò anche per evitare violazioni del principio di eguaglianza).
Era intento del legislatore, infatti, non tanto individuare le categorie dei lavoratori beneficiari del divieto, ma identificare la natura del licenziamento (economico) che esso aveva l’obiettivo di bloccare durante la pandemia in favore di tutti coloro che operavano all’interno della azienda, inclusi i dirigenti. Così, ad esempio, scrive il dott. Michele De Luca (già Presidente titolare della sezione lavoro della Corte di Cassazione) secondo il quale il divieto di licenziamento in epoca Covid si distingue dal divieto di licenziamento postbellico, di cui al D.Lgs. 523/45, in quanto, in quest’ultimo caso, il “blocco dei licenziamenti” era rivolto “ai lavoratori, appartenenti a categorie indicate nominatim (operai, impiegati), dipendenti da datori di lavoro identificati per settore produttivo e sede”.
Al contrario il “blocco dei licenziamenti” in epoca Covid “riguarda tipologie di licenziamento identificate nominatim e mediante rinvio alla nozione legale rispettiva (licenziamenti collettivi “di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223” e licenziamenti individuali per “giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”). Si tratta, in altri termini, di stabilire se il licenziamento, in concreto intimato, sia sussumibile – sulla base della motivazione, addotta a sostegno – in una delle tipologie di licenziamento investite dal blocco. Esula, invece, qualsiasi scrutinio circa l’osservanza – ed, ancor prima, circa l’applicabilità – della disciplina relativa alla stessa tipologia di licenziamento (art. 24 legge 223 del 1991, legge 604 del 1966). All’evidenza, prescinde dalla stessa disciplina, la definizione della tipologia di licenziamento, in quanto volta al solo fine della soggezione al blocco”. Per tali ragioni l’autorevole interprete ritiene applicabile il blocco dei licenziamenti anche ai dirigenti, in quanto il richiamo normativo compiuto ha il solo scopo di individuare una delle tipologie di licenziamento investite dal divieto: il licenziamento economico. Non ha, al contrario, la funzione, come nel caso del blocco postbellico, di individuare la platea dei lavoratori cui il blocco si riferisce.
Coerente con simile interpretazione, alla quale in pieno si aderisce, vi è il fatto che se è vero che il legislatore, con le norme sopra richiamate, ha fatto espresso riferimento all’art. 3 della legge 604 del 66 è altrettanto esplicito il richiamo da esso operato agli artt. 4, 5 e 24 della legge 223 in tema di licenziamento collettivo (disciplina pacificamente applicabile al dirigente). E allora è evidente che esso avesse a mente di individuare solo il tipo di licenziamento vietato: sarebbe del tutto illogico, interpretando diversamente, ritenere nullo, in quanto disposto in violazione di disposizione imperativa, il licenziamento di un dirigente disposto all’interno di un licenziamento collettivo, e ritenerlo, al contrario, valido se disposto all’interno di un licenziamento individuale plurimo.
Questi ragionamenti, tutti attualmente pendenti avanti il Tribunale di Verona in un contenzioso che lo studio ha in corso, sono stati fatti propri anche dal Tribunale di Roma che, con sentenza del 26.02.21, ha dichiarato la nullità del licenziamento del dirigente per violazione di norma imperativa di legge, con ogni onere conseguente in capo all’azienda.
Avv. Alessio Veggiari
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