Il blocco dei licenziamenti

Cosa possono fare il dipendente e il datore di lavoro fino al 17 agosto 2020 se si esaurisce il trattamento di C.I.D.?

Le attività economiche e produttive stanno lentamente riaprendo dopo la sospensione o la riduzione imposta dalla legislazione d’urgenza, ma, nei casi in cui (come, ad esempio, nei settori del turismo, ricreazione, ristorazione, organizzazione di eventi, ecc…) la necessità di forza lavoro è nettamente diminuita rispetto al periodo precedente all’epidemia, cosa succede al personale assunto a tempo indeterminato che risulti in eccedenza?

In primis, la soluzione preferibile è quella di attivare e/o prorogare la Cassa Integrazione Guadagni (Ordinaria o in Deroga) o gli altri strumenti a sostegno del reddito (F.I.S.), fino alla loro durata massima, per consentire ai lavoratori sospesi (in tutto o in parte) dalla prestazione di beneficiare di un’indennità pari all’80% della retribuzione (comprensiva di eventuali ratei di mensilità aggiuntive) che avrebbero percepito per le ore di lavoro non prestate tra le ore zero e il limite dell’orario contrattuale, oltre alla contribuzione figurativa e i relativi oneri accessori.

In sostanza, se il datore di lavoro è costretto a sospendere tutti o alcuni dipendenti o a turnarli perché non ha abbastanza lavoro a causa del Covid-19, ricorrendo a tali strumenti può mantenere in forza tutti i dipendenti, senza alterarne significativamente la retribuzione e, non appena avrà nuovamente bisogno delle loro energie lavorative, richiamarli al lavoro a tempo pieno.

Quando, però, tale strumento a sostegno del reddito viene ad esaurirsi per raggiungimento della sua durata massima, cosa può fare il datore di lavoro? 

Sappiamo benissimo che non può licenziare per motivi economici, perchè l’art. 46 d.l. 18/2020, nella formulazione attualmente vigente, lo vieta fino al 17.08.2020, disponendo che: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4,5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Si apre quindi un periodo di “limbo”, ovvero di incertezza circa le sorti del rapporto, nel quale il dipendente non è utile al datore di lavoro ma non può essere licenziato. Spesso, peraltro, il datore di lavoro – anche volendo – non è in grado di sostenerne l’onere economico, perché la scarsità delle commesse, delle ordinazioni, delle prenotazioni, ecc… non gli garantiscono la liquidità necessaria a coprirne la retribuzione.

Si tratta di un caso, a nostro avviso, di sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione dovuta a causa di forza maggiore. 

In generale, essendo il rapporto di lavoro un contratto a prestazioni corrispettive, il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre o sospendere l’attività lavorativa e specularmente rifiutare di corrispondere la retribuzione, altrimenti dovrebbe rispondere di inadempimento contrattuale, dato che il rifiuto di eseguire la prestazione può essere opposto da un contraente (nella specie il datore di lavoro) soltanto se l’altra parte (il lavoratore) ometta di effettuare la prestazione da lui dovuta.

Nel caso che ci riguarda, però, il datore di lavoro è costretto a ridurre o sospendere l’attività lavorativa per un fatto non ricollegabile in alcun modo a sua colpa, né da lui prevedibile, né evitabile (una causa di forza maggiore qual è l’epidemia di Covid-19), e, non potendo beneficiare della prestazione lavorativa del dipendente, non è nemmeno tenuto a corrispondergli la retribuzione. Durante detto periodo, il rapporto di lavoro resta sospeso, con diritto del dipendente alla conservazione del posto e a riprendere servizio non appena la situazione di emergenza sarà terminata.

Sul punto, si segnala l’orientamento della Corte di Cassazione: “il datore di lavoro che non ottenga il richiesto intervento della C.I.G. è tenuto alla corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti, salva la prova (a carico del medesimo) della sussistenza di una situazione d’impossibilità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1256 c.c., che può consistere nella non utilizzabilità della prestazione lavorativa per fatti non addebitabili allo stesso datore di lavoro, in quanto non prevedibili, né evitabili, né riferibili a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale o a calo di commesse o a crisi economiche o congiunturali e strutturali. Resta salvo, comunque, un eventuale accordo aziendale con cui l’imprenditore e le organizzazioni sindacali operanti nell’azienda pattuiscano, ai fini del ricorso alla C.I.G., una sospensione temporanea del rapporto di lavoro, che preveda la mancata prestazione lavorativa per un certo periodo, con inequivoco contestuale esonero del datore di lavoro all’obbligazione retributiva indipendentemente dall’esito della richiesta di concessione dell’integrazione salariale”. 

Peraltro, nella maggior parte dei contratti collettivi tale ipotesi è già espressamente regolata come uno dei casi in cui il lavoratore può essere messo in aspettativa non retribuita, a costo zero per il datore di lavoro, ma con salvaguardia del posto di lavoro e mantenimento di tutti i diritti quesiti.

In questo particolare momento, le organizzazioni sindacali rivestono un ruolo fondamentale, perché sono chiamate a siglare con i datori di lavoro accordi aziendali per tutelare i posti di lavoro e regolare i tempi e i criteri di rientro in servizio dei dipendenti e richiedere ed attivare, laddove possibile, ulteriori misure a sostegno del reddito durante i periodi di sospensione o riduzione dell’attività.

Avv. Silvia Rizzo