I verbali di rinuncia e transazione in sede sindacale

Di norma, il lavoratore non può validamente rinunciare ai propri diritti inderogabili scaturenti dalla legge o dal contratto collettivo.

Pertanto, qualora abbia sottoscritto una rinuncia o una transazione che manifesti in modo inequivocabile la sua volontà di non far valere quei diritti, potrà impugnarla con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, purché sia idoneo a rendere nota la sua volontà, entro il termine di decadenza di sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla data di sottoscrizione della rinuncia o transazione, se successiva.

Per maggior chiarezza, si precisa che la rinuncia è una dichiarazione unilaterale, portata a conoscenza dell’altra parte, con la quale si manifesta la volontà di non voler più esercitare un proprio diritto, mentre la transazione è un contratto, e cioè un atto bilaterale, con il quale le parti si fanno reciproche concessioni per porre fine ad una lite già insorta o prevenirne l’insorgenza.

L’art. 2113 c.c., per tutelare il contraente “debole” del rapporto di lavoro, e cioè il lavoratore, che normalmente versa in una situazione di soggezione nei confronti del datore di lavoro, prevede quale regola l’invalidità degli atti dispositivi compiuti in relazione ai suoi diritti inderogabili, ma stabilisce anche che sia possibile derogare a questo regime attraverso le conciliazioni raggiunte nelle sedi “protette”, che valgono a conferire all’atto di rinuncia/transazione una sostanziale definitività, in ragione del fatto che in tali sedi il lavoratore viene assistito e tutelato al momento della sottoscrizione. 

Si tratta delle ipotesi di conciliazione di cui agli art. 185 c.p.c. (in sede giudiziale), art. 410 c.p.c. (in sede amministrativa, e cioè presso le Direzioni Territoriali del Lavoro), art. 411 c.p.c. (in sede sindacale), oltre che delle meno frequenti ipotesi di cui agli artt.  412ter e 412quater c.p.c. (conciliazione e arbitrato nelle sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle Associazioni Sindacali maggiormente rappresentative e presso un ulteriore Collegio di Conciliazione ed Arbitrato Irrituale).

La forma più diffusa di conciliazione è quella in sede sindacale, ove l’accordo tra le parti viene raggiunto con l’intervento e l’assistenza di un rappresentante sindacale. Ai sensi dell’art. 411 co. 3 c.p.c., il verbale della conciliazione svolta in sede sindacale viene depositato presso la Direzione Provinciale del Lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’Associazione Sindacale e, una volta accertata la sua autenticità, viene depositato nella cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il Giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.

Quindi anche il verbale di conciliazione stipulato in sede sindacale può avere efficacia di titolo esecutivo e può, dunque, legittimare il creditore a procedere ad esecuzione forzata per ottenere l’adempimento delle statuizioni in esso previste, al pari di una sentenza o di un’ordinanza del Tribunale.

Ma vediamo quali sono i requisiti che secondo la giurisprudenza prevalente un verbale di conciliazione deve avere per poter assurgere a una tale qualifica.

1) L’EFFETTIVA RAPPRESENTANZA DEL LAVORATORE

In primis, affinchè le rinunce/transazioni siano valide, l’assistenza da parte del sindacalista dev’essere effettiva e regolare (Cass. Civ., sez. lav., sent. 23/10/2013 n. 24024) e, in pratica, che, tra gli altri:

• il rappresentante sindacale sia stato chiamato dal medesimo lavoratore, che appartiene all’Organizzazione Sindacale o che vi si è rivolto per ricevere assistenza (Cass. Civ., sez. lav., sent. 22/05/2008 n. 13217),
• il rappresentante sindacale sia presente al momento della sottoscrizione del verbale,
• egli abbia spiegato al lavoratore il contenuto e gli effetti (ivi inclusa l’inoppugnabilità) dell’accordo da sottoscrivere.

2) LA RES LITIGIOSA

Altrettanto importante è che verbale di conciliazione si riferisca ad una questione effettivamente controversa tra le parti, che solitamente viene indicata nelle premesse dell’atto, e che esso non sia solo un “pretesto” per ottenere la rinuncia del lavoratore ad “ogni domanda o diritto comunque connesso o anche solo occasionato dal rapporto di lavoro”. Se manca la res litigiosa, infatti, il negozio è privo di causa, e quindi nullo.

3) LA CONSAPEVOLEZZA DEI DIRITTI ABDICATI

Va evidenziato, inoltre, che, secondo la Giurisprudenza prevalente, la dichiarazione di rinuncia, anche nell’ambito di una transazione, non è valida se riferita in termini generici ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del rapporto lavorativo, a meno che non risulti accertato “sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa è stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi”, dal momento che elenchi di diritti relativi alle più varie ipotesi afferenti al rapporto di lavoro sono assimilabili a clausole di stile e non sono sufficienti, ex se, a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato (si veda, da ultimo, Cass. Civ., sez. lav., sent. 14.01.2021 n. 558). Peraltro, un diritto non può essere oggetto di rinuncia/transazione se, al momento della stipula, non è ancora sorto (Cass. Civ., sent. N. 25/2019, ex multibus).

La rinuncia/transazione, dunque, deve riferirsi a specifici diritti controversi, di cui le parti devono aver fatto espressa menzione nel verbale.

4) LA RECIPROCITÀ DELLE CONCESSIONI

Come detto, la transazione è un negozio con il quale le parti si fanno reciproche concessioni al fine di risolvere bonariamente questioni tra loro insorte o di prevenire questioni che potrebbero insorgere. Vi è, quindi, una peculiare sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti, che vengono stabilite le une in cambio delle altre.

Qualora, però, come spesso accade, sia prevista solo la rinuncia di una parte senza alcuna corrispondente concessione da parte dell’altra, oppure vi sia un’evidente sproporzione tra le reciproche concessioni (ad esempio quando venga riconosciuta al lavoratore una somma in relazione ad una specifica rinuncia, ma venga inserita anche una clausola c.d. “tombale” di rinuncia a tutti i diritti connessi o occasionati dal rapporto di lavoro), la transazione è nulla o invalida per assenza di causa.

Si pensi al caso in cui al lavoratore, al momento della cessazione del rapporto, venga sottoposto per la firma un verbale di conciliazione in cui dichiara di rinunciare ad un lungo elenco di diritti, retributivi e risarcitori, finanche mai rivendicati nei confronti del datore di lavoro, in cambio del pagamento della somma lui dovuta (e, quindi, cui il datore di lavoro è comunque obbligato) a titolo di trattamento di fine rapporto (T.F.R.): non vi è alcuna concessione da parte dell’azienda, ma solo una totale abdicazione di diritti da parte del lavoratore. 

In tutti i casi in cui manchi anche uno solo dei suesposti requisiti, non solo il verbale potrebbe essere impugnato, anche se sottoscritto in sede sindacale e senza dover rispettare il termine di decadenza di cui all’art. 2113 c.c., ma i diritti asseritamente “abdicati” potrebbero essere fatti valere dal dipendente entro gli ordinari termini di prescrizione. 

Come emerge da questa breve disamina, sono molteplici i fattori che possono determinare l’invalidità del verbale di conciliazione in sede sindacale. Per tale motivo, è sempre consigliabile, per entrambe le parti, rivolgersi al proprio rappresentante sindacale o al professionista di fiducia (avvocato, consulente del lavoro) prima di procedere alla sottoscrizione. 

Avv. Silvia Rizzo