COVID 19 e il divieto di licenziamento individuale

Vista la situazione venutasi a creare a seguito dell’imperversare della pandemia, il nostro legislatore è intervenuto con una serie di disposizioni molto importanti sul mondo del lavoro.

Due le premesse di partenza: 

1. si tratta di una normativa dettata dall‘urgenza sanitaria, con inevitabili conseguenze sulla qualità ed il coordinamento delle nuove disposizioni con quelle già vigenti;
2. l’intento del legislatore è evidentemente quello di cercare di aiutare le imprese a superare questa fase di enorme difficoltà e, contemporaneamente, di tutelare i lavoratori, salvaguardandone reddito e posti di lavoro.

Per quanto attiene quest’ultimo aspetto, l’art. 46 del D.L. 18 del 2020 stabilisce espressamente che, in merito ai licenziamenti individuali, a decorrere dal 17 marzo 2020, data di entrata in vigore del decreto e sino al 15 maggio 2020, “il  datore  di  lavoro,  indipendentemente  dal  numero  dei dipendenti, non può recedere dal contratto per  giustificato  motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15  luglio  1966,  n. 604”. Analoga disposizione, peraltro, è prevista per i licenziamenti collettivi, le cui procedure, se già iniziate nel termine inziale di cui sopra, sono state sospese dalla disposizione citata.

Vale la pena evidenziare che il divieto di licenziamento imposto dal legislatore riguarda solo i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, cioè quelli fondati essenzialmente su ragioni economiche o su riorganizzazioni aziendali. Non è assolutamente vietato, quindi, licenziare il dipendente per ragioni disciplinari: quando cioè il lavoratore si sia macchiato di fatti così gravi (ad esempio, il furto di beni aziendali) da non consentire, per essere venuto meno il necessario rapporto fiduciario, la prosecuzione del contratto di lavoro. In questi casi il datore potrà normalmente utilizzare la leva disciplinare per allontanare, con il licenziamento, il proprio dipendente.

Al contrario, come detto, viene sospesa ogni possibilità di recesso per giustificato motivo oggettivo. Se l’imprenditore, in violazione di detta disposizione, si determinasse a licenziare comunque il lavoratore, ciò comporterebbe la nullità del licenziamento, in quanto effettuato in violazione con la disposizione imperativa di cui sopra, con diritto dei lavoratori licenziati alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro e a percepire tutte le retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento alla effettiva reintegrazione (ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori o ex art. 2 D.Lgs. 23/15). 

Dagli Stati Uniti, se vogliamo fare un esempio di un paese che non ha adottato le misure qui in discussione, giunge la notizia che ad oggi, 16 aprile 2020, il numero di disoccupati è salito di oltre 22.000.000 di persone, con corrispondente aumento esponenziale dei sussidi di disoccupazione (che nel nostro ordinamento, è utile evidenziare, hanno durata biennale).

Il nostro Legislatore, per evitare una simile situazione, oltre al divieto di licenziamento, è intervenuto con la contemporanea attivazione della Cassa Integrazione allo scopo, da un lato, di alleggerire alle aziende il peso degli stipendi e salari in un momento di forzata inattività, dall’altro, di garantire ai dipendenti gran parte del loro stipendio. Non secondario, in tutto questo, è ricordare a tutti noi che i lavoratori dipendenti versano circa l’80% di tutto il gettito Irpef acquisito dallo Stato. Che in un momento di così grande difficoltà, quindi, essi possano contare sulla stabilità del posto di lavoro e sulla percezione della Cassa (da essi, per larga parte, finanziata attraverso la fiscalità generale) appare, a parere di chi scrive, un fatto assolutamente doveroso.

Stupisce, quindi, leggere su prestigiosi quotidiani nazionali commenti che classificano le disposizioni di cui sopra come palesi violazioni della libertà d’impresa di cui all’art. 41 della Costituzione. E ciò, a mio modesto avviso, in quanto:

1. in primo luogo, dell’art. 41 Cost., questi giuslavoristi si limitano, da sempre, a leggere solo il I comma, dimenticando, inevitabilmente,  il contenuto del II e del III comma secondo il quale “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”;
2. in secondo luogo, l’impresa non è fatta solo dall’imprenditore (e di questo, la maggior parte degli imprenditori è assolutamente cosciente e lo dimostra concretamente, anche in tale durissimo momento storico, con grandi gesti di solidarietà), ma è  formata (e ne rappresentano, invero, la vera spina dorsale) dall’insieme di dipendenti e collaboratori, che contribuiscono, fattivamente, al conseguimento dei risultati aziendali.

Ritengo che l’intervento del nostro Legislatore, che cerca di tenere tutti solidalmente uniti in questo momento di generale difficoltà, rappresenti un giusto punto di equilibrio delle posizioni e degli interessi in gioco, con l’obiettivo di andare oltre e di superare la crisi. Con la convinzione di poter, presto, ricominciare con il consueto, reciproco impegno.

Avv. Alessio Veggiari