Caporalato: il caso Uber Eats.

Contratti d’appalto ed incidenza sul rapporto di lavoro

Capita spesso, all’interno dell’organizzazione di una impresa (committente), che si decida di affidare, ad un’altra società (appaltatrice), la realizzazione di un’opera o di un servizio. Si possono affidare, ad esempio, ad altre imprese appaltatrici la consegna della merce prodotta, la gestione del magazzino, la pulizia degli uffici, la verifica di qualità del prodotto ecc. Il rapporto tra le due società viene regolamentato attraverso un contratto d’appalto. Tali operazioni hanno una grandissima incidenza sul rapporto di lavoro del personale coinvolto.

LA VECCHIA DISCIPLINA

Un tempo la norma di riferimento era la legge 1369/60. Essa conteneva due disposizioni importantissime:

l’art. 1, che sanzionava il caporalato, vietando di dare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di sola manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario. Esisteva una presunzione assoluta di appalto di mere prestazioni di lavoro (vietato) ogni qual volta l’appaltatore impiegava capitali, macchine ed attrezzature fornite dal committente, quand’anche, per il loro uso, fosse stato corrisposto un compenso all’appaltante. Il senso della disposizione era chiarissimo: che imprenditore poteva essere uno che non aveva nemmeno i soldi per avere una minima attrezzatura necessaria alla esecuzione dell’appalto? Che imprenditore poteva essere un soggetto che non assumeva su di sé alcun rischio d’impresa ma si limitava a porre, in favore del committente, a disposizione il proprio personale? Evidentemente non si trattava di un vero imprenditore, ma di un mero procacciatore di mano d’opera, per cui, attraverso una azione giudiziale, il lavoratore coinvolto poteva ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente in capo al committente. Non per questo l’appalto era, di per sé, con detta normativa, considerato illecito. Tutt’altro. Se l’opera ed il servizio erano effettuate da un imprenditore VERO (che assumeva cioè su di sé il rischio d’impresa, che aveva strumenti e organizzazione sufficienti per dare esecuzione a quella commessa) l’appalto era assolutamente legittimo.

l’art. 3, disciplinava (appunto) l’appalto genuino. Esso prevedeva che, in caso di appalto lecito, l’imprenditore committente che decideva di appaltare opere o servizi era tenuto, in solido con l’appaltatore, a corrispondere ai dipendenti di quest’ultimo un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiori a quelli spettanti ai lavoratori dipendenti del committente. La funzione di quest’ultima disposizione era chiarissima: non era legittimo che lavoratori che partecipavano allo stesso ciclo produttivo, e magari lavoravano gomito a gomito, ricevessero (a seconda che fossero formalmente assunti dalla committente o dalla appaltatrice) trattamenti economici normativi diversi. Era una disposizione, in definitiva, che portava la società committente a dare in appalto opere e servizi, non per mere intenzioni speculative di risparmio, ma solo quando la società che acquisiva la commessa era in grado di dare concretamente un qualche cosa che la committente non aveva, a livello di competenze, di organizzazione, di esperienza, ecc.

Inutile dire che tale legge, nata con l’obiettivo di impedire fenomeni di caporalato, è stata abrogata. Ciò è avvenuto in quanto si riteneva, come spesso capita, che si trattasse di una legge “vecchia e superata”, in quanto il caporalato era una figura in via di estinzione, limitato solo al settore agricolo, nelle zone più arretrate del Paese.

Si sono aperte le strade, così facendo, alla somministrazione di mano d’opera. In nome della inefficienza dei centri per l’impego, ritenuti anch’essi polverosi luoghi pieni di burocrati. Con questi effetti https://www.giornalettismo.com/lavoro-adecco-primo-datore-in-italia/. La disciplina di cui sopra è stata sostituita, per quel che qui interessa, dall’art. 29 del D.Lgs 276/03.

LA NUOVA DISCIPLINA

La nuova norma ha modificato profondamente i due punti di cui sopra, prevedendo:

Per quanto attiene il punto I), che il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. E’ sufficiente, quindi, affinché vi sia un appalto genuino, che l’appaltatore (non, come in passato, possegga gli strumenti di lavoro necessari alla esecuzione dell’appalto, ma) svolga attività di direzione ed organizzazione del personale. Si è fatto, inutilmente, notare che dirigere e organizzare la mano d’opera è proprio l’attività tipica dei caporali (che fanno proprio questo mestiere) e che, con questa disposizione, diviene molto più difficile demarcare l’appalto genuino, distinguendolo da quello illecito, dal caporalato.

Per quanto concerne il punto II), il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti. Sparisce, da tale previsione, quindi, l’obbligo di garantire ai dipendenti della società appaltatrice un trattamento economico normativo corrispondente a quello riconosciuto ai dipendenti della committente.

L’effetto di quanto sopra emerge, chiaro, da una veloce ricerca sulla cronaca dei quotidiani. Eccone alcuni esempi:

L’ultimo caso, richiamato nel titolo: https://www.corriere.it/cronache/20_maggio_29/uber-italia-stata-commissariata-caporalato-rider-cfdce7bc-a1bc-11ea-972c-41555f8ee621.shtml; Questo il video di una intercettazione significativa https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/31/caporalato-sui-rider-il-messaggio-nella-chat-dei-fattorini-siete-come-i-bambini-se-non-rispondete-vi-togliamo-i-soldi-laudio/5819115/ ;
Negli appalti della cantieristica navale: https://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2020/05/29/news/fincantieri-anche-ad-ancona-via-alle-indagini-sui-subappalti-verifiche-su-15-milioni-di-fatture-1.38905708?refresh_ce;
Nella fabbricazione delle scarpe https://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2020/05/29/news/caporalato-e-bancarotta-condannati-due-coniugi-1.38903782;
In edilizia http://www.tvprato.it/2020/05/caporalato-nel-settore-edile-11-arresti-in-toscana-disposti-dalla-procura-di-prato-contestata-lassociazione-per-delinquere/;
Nella logistica https://fivedabliu.it/2020/05/19/caporalato-estorsione-nei-confronti-dei-dipendenti-evasione-fiscale-la-gdf-inchioda-famiglia-di-imprenditori-lodigiani-della-logistica/;
Nella produzione della carne https://www.osservatoriodiritti.it/2017/12/18/caporalato-macellazione-carne/.
In agricoltura mi riporto al mio precedente articolo “Sfruttamento del lavoro in agricoltura: una proposta per una (parziale) risoluzione del problema”.

Qual è il minimo comune denominatore di tutte queste situazioni?

Ovvio, la retribuzione.

La solita (trita e ritrita) bramosia di denaro, che porta a sfruttare gli altri pagandoli anche 1 euro l’ora (nel mio piccolo, proprio questa settimana, ho incontrato un lavoratore con mansione di guardie ai fuochi – lavoro delicatissimo e pericoloso – con retribuzione netta di euro 3,5 all’ora!).

LA PROPOSTA

Ecco, quindi, che se la molla del fenomeno appalto è economica (con grandissima responsabilità non solo degli sfruttatori ma anche della committenza che non può ignorare che certi servizi non possono essere erogati a tariffe così basse) il vero limite della nuova disciplina, come sopra ricordata, è stato quello di eliminare l’obbligo di assicurare ai dipendenti dell’appaltatore un trattamento economico e normativo non inferiore a quello riconosciuto ai dipendenti della committente. Su questo sarebbe necessario tornare indietro, alla “vecchia” normativa. Ciò anche nell’interesse degli imprenditori onesti, che si vedono superare, in competitività, da quelli che decidono di sfruttare, nei modi di cui sopra, la mano d’opera.

Altro principio importantissimo: una norma è, o meno, buona non in base alla sua età, ma sulla base della sua capacità, in concreto, di influenzare positivamente le condotte dei cittadini. Quante volte le norme vengono passate ad un “tagliando” di verifica, dopo qualche anno dalla loro approvazione, per controllare se hanno, o meno, raggiunto i risultati che ci si prefiggeva, al momento della loro emanazione? Mai. E questo è un grave errore.

In fin dei conti a nessuno è mai venuto in mente di ritenere superati i 10 comandamenti, solo perché hanno duemila anni. E allora se il comandamento “non rubare” è attualissimo, altrettanto attuale, e condiviso, dovrebbe essere, nel diritto del lavoro, il principio “non rubare lo stipendio d’altri”, attraverso catene di falsi imprenditori. Se il trattamento economico e normativo fosse lo stesso per tutti i lavoratori coinvolti, a vario titolo, nella erogazione della stessa opera o servizio, assisteremo, a mio parere, a molti meno illeciti come quelli raccontati negli articoli di cronaca di cui sopra.

Avv. Alessio Veggiari