La povertà in Italia ed il diritto del lavoro.

È di qualche giorno fa la pubblicazione del dati ISTAT sulla povertà nel nostro paese.

In sintesi i dati sono i seguenti:

Nel 2023 sono in condizione di povertà assoluta poco più di 2,2 milioni di famiglie (8,4% sul totale delle famiglie residenti, valore stabile rispetto al 2022) e quasi 5,7 milioni di individui (9,7% sul totale degli individui residenti, come nell’anno precedente). L’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie con almeno uno straniero è pari al 30,4%, si ferma invece al 6,3% per le famiglie composte solamente da italiani. L’incidenza di povertà relativa familiare, pari al 10,6%, è stabile rispetto al 2022; si contano oltre 2,8 milioni di famiglie sotto la soglia. In lieve crescita l’incidenza di povertà relativa individuale che arriva al 14,5% dal 14,0% del 2022, coinvolgendo quasi 8,5 milioni di individui.

Interessante il seguente passaggio della indagine:

L’incidenza di povertà assoluta diminuisce al crescere del titolo di studio della persona di riferimento della famiglia; se quest’ultima ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore, l’incidenza è pari al 4,6%, in peggioramento rispetto al 2022 (quando era pari al 4,0%), e raggiunge il 12,3% se ha al massimo la licenza di scuola media. Nelle famiglie con p.r. occupata, valori elevati dell’incidenza di povertà si confermano per le famiglie con p.r. operaio e assimilato (16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022), raggiungendo il valore più elevato della serie dal 2014; stessa dinamica per le incidenze degli occupati e dei dipendenti.

Come avvocato dedito al diritto del lavoro faccio queste tre considerazioni:

A) Pare evidente che il sindacato non sia più in grado nemmeno di garantire la tutela della dignità dei lavoratori. A me sembra emblematico il caso del CCNL della Vigilanza privata. Tutte le OO.SS. maggiormente rappresentative (in particolare le federazioni di categoria di CGIL, CISL e UIL) avevano sottoscritto il precedente contratto che, grazie al lavoro di alcuni colleghi e della magistratura più attenta, è stato ritenuto non idoneo a garantire una esistenza libera e dignitosa. A seguito di queste sentenze (e con l’obbiettivo di evitare il proliferare delle contestazioni) improvvisamente è stato sottoscritto il nuovo CCNL con aumenti considerevoli e l’introduzione della 14.a mensilità. Evidentemente le aziende erano già in grado di riconoscere aumenti in linea con il costo della vita anche precedentemente alle sentenze che avevano stabilito l’iniquità del trattamento stipendiale. Ed il sindacato non è stato in grado di garantire il minimo di quanto dovuto a livello costituzionale.

B) Al di là di altre ragioni (che ci porterebbero lontano dal tema) ritengo che questa incapacità del sindacato di incidere sulle dinamiche stipendiali sia la mera conseguenza del grave indebolimento del diritto di sciopero costituzionalmente garantito. L’attuale legge sullo sciopero, infatti, ha talmente depotenziato lo strumento che non è più assolutamente in grado di rappresentare (anche per la corresponsabilità di certa “libera” stampa) un valido strumento di rivendicazione delle proprie legittime richieste;

C) Infine c’è una questione più profonda legata (con alcune lodevoli eccezioni) alla nostra natura: difficilmente, infatti, riusciamo a spingerci oltre a quello che è dovuto per legge o per contratto. Anzi, come dimostra il progressivo impoverimento dei lavoratori dipendenti, facciamo di tutto per limitare al massimo di dare agli altri. In tal senso desta stupore, ad esempio, che in sede di rinnovo del CCNL Metalmeccanici, il sindacato dei datori di lavoro abbia proposto di non riconoscere alcun aumento salariale. Evidentemente l’insegnamento di Henry Ford è stato dimenticato.

Alessio Veggiari

Foto: Roberta Furini

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